Albero genealogico della famiglia Fadda
di Luigi Orrù di San Raimondo
Sono esistite due nobili famiglie Fadda, entrambe di Cagliari.
La più antica ha origine con un Michele Benedetto o Bonetto, che aveva
servito nelle Fiandre, il quale ottenne da Filippo II il 20 giugno 1559 l’ufficio
di corredor mayor del Regno. Sposò probabilmente una Jordi. Suo figlio
Geronimo fu 2° Consigliere Civico nel 1630 e Consigliere Capo nel 1632;
fu uno tra gli uomini più ricchi di Cagliari: nel 1626, durante il Parlamento
celebrato dal Viceré Marchese di Bayona, insieme ad altri notabili, si
offrì di pagare un donativo suppletivo di 15.354 scudi, quotandosi per
20 scudi, impegnandosi a versare ogni anno, per cinque anni, 50 lire.
Nel 1601 aveva sposato Donna Maria Nin y Fagondo, figlia di Alessio Nin e di
Elena Fagondo y Margens, baroni di Senis. Gerolamo Fadda morì il 7 marzo
1636.
Il 23 gennaio 1631 era stato ammesso, come cavaliere nobile, alle Cortes del
Viceré Bayona, unitamente al figlio Francesco, ancor minore.
Il figlio Francesco, nel corso dello stesso Parlamento, ebbe per 490 ducati
la corredoria della città di Cagliari. Sarà ancora presente alle
Cortes del 1642. Il 31 luglio del 1632 aveva preso in moglie Donna Giustina
Sanna y Castelvì, dei Signori di Gesico, ma da questo matrimonio non
risulta la nascita di figli. Morì in Castello il 27 aprile 1642 e con
esso si ritiene estinta la famiglia, di cui non si hanno altre notizie. Non
si conosce la data esatta del privilegio, poiché non se ne è trovata
copia: è citato solo negli atti dei Parlamenti, ai quali la famiglia
prese parte in qualità di nobili. Si può comunque collocare in
un arco di tempo compreso tra il 1626 (anno dell’offerta del donativo
straordinario da parte di Geronimo Fadda) e il novembre 1630, quando lo stesso
Geronimo viene convocato alle Cortes col titolo di nobile.
La seconda famiglia risale a circa un secolo dopo.
Un Dott. Antonio Fadda, avvocato cagliaritano, venne armato Cavaliere il 26
aprile 1724 da Don Francesco de Cervellon in esecuzione alle commissioni di
armamento rilasciate da Vittorio Amedeo II del 24 marzo dello stesso anno.
I suoi diplomi di Cavalierato però non vennero mai rinvenuti nel Regio
Archivio di Cagliari, pertanto le sue nipoti Tommasa Fadda e la sorella Giuseppa,
maritata questa col regio archivista Raimondo Sotgiu, che mercé l’avito
privilegio venivano comunemente reputate per nobili, chiesero ed ottennero dal
re Carlo Emanuele IV un nuovo Diploma di Nobiltà, personale, che venne
rilasciato da Torino il 24 maggio 1797, senza pagamento di finanza. Questo è
quanto risulta dall’istanza presentata dalle sorelle Fadda per ottenere
il nuovo Diploma, ma, dall’esame della diversa documentazione consultata,
la realtà appare un po’ diversa.
È vero che il loro avo avv. Antonio Fadda fu armato cavaliere nel 1724,
ma il relativo Regio Diploma pare non sia mai stato spedito. Diversamente ve
ne sarebbe stata la copia nel Regio Archivio o almeno la registrazione dell’exequatur.
Ed è impensabile che nulla sia stato trovato, essendo una delle due sorelle
sposata con Raimondo Sotgiu, regio archivista, cioè un funzionario che
potremmo paragonare all’odierno direttore dell’Archivio di Stato.
Si fosse trovata copia del privilegio, quindi, non sarebbe stato assolutamente
necessario chiederne una conferma o un nuovo Diploma. Si noti che il nuovo privilegio
è di Nobiltà, e personale, in quanto concesso a donne, che non
potevano essere fregiate del cavalierato. Si prese inoltre per buono quanto
contenuto nella supplica relativamente alla comune reputazione di nobili.
L’avv. Antonio Fadda, loro avo, che nel 1721 era stato 3° consigliere
della città di Cagliari, mentre negli anni 1732, 1736, 1742, 1749 fu
giurato capo, probabilmente non fu mai in grado di pagare i relativi diritti
dovuti alle Regia Cassa per le concessioni di cavalierato e pertanto il suo
titolo decadde e rimase solo virtuale. Nei documenti visionati - atti notarili,
testamenti, inventari - infatti, non solo egli e i suoi figli non fanno mai
uso, né vengono qualificati come cavalieri o nobili. Dall’inventario
dei suoi beni, fatto su istanza delle figlie Giacinta e Maria Antonia, curatrici
ed esecutrici testamentarie, tra il gennaio e il febbraio 1752, non risulta
nessun Regio Diploma di cavalierato e appare una situazione economica modestissima
di una persona totalmente priva di patrimonio per vivere col richiesto decoro
per un cavaliere, che si manteneva dalla sua sola professione. Aveva poi una
numerosa prole, tra cui una figlia monaca nel convento di Santa Caterina da
Siena.
I due figli maschi erano entrambi laureati in leggi e avvocati come lui e si
erano già sposati. Come da lui stesso confermato nel testamento, le figlie
non possedevano altri vestiti oltre quelli che indossavano, che si erano cuciti
da sé. Raccomanda di pagare tutti i debiti lasciati e lascia la sola
legittima ai figli maschi, probabilmente perché già dotati al
momento del loro matrimonio e perché già mantenuti con sacrificio
agli studi. I pochi censi posseduti li lascia alle figlie.
Il figlio Dott. Domenico, padre di Tommasa e Giuseppa citate in apertura, muore
pochi anni dopo il padre, lasciando la vedova e tre figli ancor piccoli ai soccorsi
ecclesiastici. Alla morte della vedova del Dott. Domenico, la figlia maggiore
Giuseppa era già sposata con l’archivista Sotgiu, l’altro
figlio Giovanni, che morirà ancor giovane, venne preso presso di sé
dallo zio avv. Antonio Giacinto, che stava a Iglesias, dove era sposato, senza
figli, con la vedova Donna Anna Francesca Sahona y Brunengo, benestante, che
lo avviò agli studi, mentre la figlia più piccola Tommasa fece
la spola tra vari parenti e affidatari, finché, “consigliate”
dai loro confessori, le zie paterne Maria Antonia, Rosalia e Giacinta non presero
nella loro casa l’orfanella, ormai undicenne, occupandosi della sua educazione,
che a quanto risulta, era assai carente. In casa delle zie rimase fin quando
non si maritò col capitano nella Centuria Leggera Giuseppe Ferrari. Durante
gli anni di permanenza con le zie, oltre ai lavori di casa, dovette aiutarle
nella occupazione che dava loro da vivere, ovvero confezionare paste fini da
vendere ai negozianti, lavorando essa stessa la semola, vestendosi e mantenendosi
con questo lavoro.
Abbiamo visto che il Dott. Domenico aveva pure un figlio maschio, Giovanni,
che venne preso presso l’altro zio Antonio Giacinto che stava a Iglesias.
Questi, pur non possedendo alcun genere di beni ma solo quelli della moglie,
poteva condurre un’esistenza sicuramente più agiata delle sorelle
rimaste a Cagliari. Poiché non ebbe figli, rimase erede della moglie,
e nel proprio testamento, dettato pochi giorni dopo il di lei decesso, lasciò
tutti i beni da essa ereditati alle proprie sorelle superstiti Maria Antonia,
Giacinta e Rosalia, col vincolo di tenere in conto e trattare il nipote Giovanni
nello stesso modo in cui egli stesso lo trattava, e, seguita la morte delle
tre sorelle, tutti i beni passassero allo stesso Giovanni, col nuovo vincolo
personale di mantenere la sorella Tommasa finché nubile.
I suoi beni, per un valore di più di 5.000 £, consistevano in una
casa, un uliveto e alcune terre a Iglesias, denominate “de cannedu”,
venduti dalle sorelle Giacinta, Maria Antonia e Rosalia, un canneto in Domusnovas,
alcune terre ed alberi d’olivo in Villamassargia, oltre numerosi mobili
di casa di un certo valore.
Deceduti in successione la zia Rosalia, il fratello Giovanni e l’altra
zia Maria Antonia, Tommasa Fadda mosse causa all’unica zia superstite
Giacinta nel vano tentativo di entrare in possesso delle quote ereditarie delle
altre zie, di cui, secondo lei, era erede per conto del defunto fratello Giovanni.
Entrambe le litiganti vennero ammesse al beneficio dei poveri, su loro richiesta,
dietro riscontro testimoniale sulla loro effettiva e notoria povertà.
Si noti ancora che l’altra sorella Giuseppa, quella sposata con l’archivista
Sotgiu, che pure sarebbe stata erede del fratello, morto senza testamento, non
prese mai parte alla causa né accampò mai pretesa alcuna a qualsivoglia
eredità!
Ma il giudice diede torto alla nipote, poiché – questa è
la motivazione – “è fuor di dubbio, che solo dopo la morte
di tutte tre le sorelle del testatore facevasi luogo alla vocazione di Giovanni
Fadda. È pertanto destituita di ogni fondamento la domanda proposta in
atti da Tommasa Fadda nella qualità di erede ab intestato dell’ora
defunto Gio. Fadda, che premorì a Maria Antonia, mentre si trova ancora
in vita la Giacinta”. Vengono pertanto assolte entrambe dalle reciproche
pretese di rimborso degli alimenti prestati.
E la comune reputazione di nobili di cui si faceva vanto Donna Tommasa Fadda
nella sua supplica diretta al rinnovo del privilegio nobiliare?
Nei pubblici documenti non ve n’è traccia: è la sola Tommasa
Fadda a intitolarsi e farsi chiamare nobile dai suoi avvocati, come pure da
un testimone che abitava a pensione nella sua casa. Simile intitolazione nobiliare,
il “Don”, dava lei al marito, che, inspiegabilmente, viene chiamato
dapprima col cognome di Ferrari, per poi chiamarlo Medinas, forse più
spagnoleggiante e per questo circondato da un’aura di nobiltà…,
mentre i giudici lo chiamano sempre Ferrari, negando loro ogni qualifica e trattamento
nobiliare, nonché privilegio di foro: se nobili, avrebbero infatti avuto
diritto al cosiddetto cartello militare, ovvero una citazione di 26 giorni di
tempo, e sarebbero stati sottoposti non al magistrato ordinario o Real Veguer,
ma direttamente al giudizio della Reale Udienza. Ma così non fu.
Probabilmente scornata da una fanciullezza infelice e povera – da bambina,
asserì, dovette fare da serva alle zie, e sarebbe dovuta andare a servir
dalla sua stessa sorella se le zie non lo avessero impedito – , dal sogno
svanito dell’eredità dello zio che mai non ebbe, cercò di
rivalersi almeno nell’ottenere quella nobiltà che l’avo non
riuscì a conseguire. E che è la sola che fu realmente concessa
a questa famiglia, è bene ricordarlo ancora, nel 1797, in forma personale
e senza pagamento di finanza, da Carlo Emanuele IV.
Donna Tommasa Fadda decedette in Castello il 31 gennaio 1809 e con essa si estinse
la famiglia.
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