Albero genealogico della famiglia Mattarés

Una saga familiare tra Settecento ed Ottocento:
I Mattarés di Busachi
Splendori e miserie di un cavaliere di campagna dalla sua ascesa alla sua caduta.
di Luigi Orrù di San Raimondo

Durante il torbido periodo rivoluzionario sardo di fine Settecento venne nominato delegato viceregio del marchesato di Busachi Don Antioco Mattarés, amministratore dei redditi baronali dello stesso feudo. In alcune lettere anonime fu accusato di opinioni politiche contrarie al governo, unitamente al figlio, al genero ed altre persone del paese, tra le quali i nobili Don Gregorio e Don Quirico Massidda. Oltre a queste poche notizie del periodo rivoluzionario non si sapeva altro su di lui e la sua famiglia se non la data della concessione nobiliare, il 1788. Pare che a Busachi esista ancora la sua antica casa.
Qualche tempo fa, nel corso di altre ricerche, mi capitò fra gli altri per le mani un fascicolo alquanto voluminoso e polveroso, legato ancora a bolentino – segno dunque che non era stato aperto da decenni – che riguardava proprio la famiglia Mattarés. Siccome il nome non mi era nuovo, preso da curiosità cominciai a leggerlo. Quella che sembrava a prima vista una banale lite familiare si rivelò ben presto una preziosa fonte di notizie riguardanti la famiglia, la sua vita, le origini, il patrimonio, le idee ... La causa era intitolata “Donna Giuseppa Mattarés, e suo marito avv. Don Nicolò Mura di Oristano, contro Don Antioco Mattarés, e figli di questi Don Giuseppe, Donna Maria Antonia, e Donna Maddalena fratello, e sorelle Mattarés”. L’anno era il 1809. Solo nel titolo si trovava nominata tutta la famiglia! Cominciai quindi a esaminare il fascicolo, prendendo numerosi appunti, e  mi resi subito conto che non sarebbe stato un lavoro di breve durata: impiegai infatti alcune settimane di studio. La causa non era eccessivamente lunga, rispetto ad altre studiate. Iniziava nel 1809 per terminare nel 1812. Ma vediamo meglio, ora, attraverso le vicende narrate dai documenti prodotti in causa, di ricostruire la storia ancora sconosciuta di questa famiglia e del suo capostipite Don Antioco. Egli nacque in Busachi intorno al 1730, come si deduce dal suo testamento allegato, da una famiglia originaria di Porto Longone nell’Isola d’Elba, forse di provenienza spagnola, da Don Giuseppe Mattarés e Donna Caterina Manis. Suo nonno era invece Don Vincenzo Mattarés, che servì in qualità di alfiere nello stato maggiore delle piazze di Longone e Barcellona. Aveva sposato una certa Juana Pinna, sicuramente sarda, dalla quale nacque nel 1703 a Porto Longone il figlio Don Giuseppe. Costui nel 1734 ottenne dal Viceré Falletti un passaporto per raggiungere la città di Livorno. Non sappiamo né quando né dove morì, come pure cosa faceva nella vita. Sappiamo però che prese in moglie una vedova, Caterina Manis, che gli portò in dote alcuni starelli di terra a Busachi, importante centro del Barigadu e sede di marchesato. Da questo matrimonio nacquero quattro figli: Don Antioco, Donna Giuseppa, Donna Antonica e Donna Giovanna.
Portatosi a Cagliari per compiere gli studi, Don Antioco se ne ritirò all’età di 24 anni senza beni né denaro. Si impiegò allora come ufficiale di giustizia delle curie baronali di Santu Lussurgiu e Padria; fu anche fattore baronale e vi rimase per quattro anni. Per altri due anni fu ancora ufficiale di giustizia nel dipartimento di Busachi. Coi proventi di ufficiale di giustizia poté acquistare un chiuso di 22 starelli (circa nove ettari) nelle campagne di Busachi, un comune di vacche e due di pecore. Tornato poi a Cagliari, si imbarcò per Terraferma dove rimase per qualche tempo. Rientrato poi a Busachi, nel febbraio del 1769 prese in moglie una lontana parente, Maria Geronima Figus Aquenza, ottenendo dispensa dalla Santa Sede per essere una cugina di terzo grado. Cominciava così la sua ascesa.  Pare infatti che Maria Geronima fosse la donna più ricca di Busachi: i suoi genitori possedevano terre chiuse e aperte e numeroso bestiame. La sua unica sorella, Mariangela, era sposata col Nobile Don Giuseppe Massidda. Alla morte dei suoceri, il patrimonio Figus Aquenza fu amichevolmente diviso fra le due sorelle Mariangela e Maria Geronima insieme ai rispettivi mariti. I busachesi, che avevano conosciuto Antioco Mattarés ancor povero, non appena seguito il suo matrimonio lo considerarono l’uomo più ricco del paese. Dotato di una certa abilità negli affari, unita a molta spregiudicatezza, fece aumentare sensibilmente il patrimonio nuziale, i cui beni erano stati conferiti in regime di comunione dei beni – il cosiddetto matrimonio alla sardesca – . Da questo matrimonio nacquero ancora un maschio e tre femmine: Donna Maddalena, Donna Giuseppa, Don Giuseppe e Donna Maria Antonia.
Seguita la morte della moglie, avvenuta nel maggio del 1781, Don Antioco occupò ancora per sette anni l’impiego di ufficiale di giustizia nel dipartimento di Busachi, fino al 1788, quando fu nominato amministratore del marchesato fino al 1792, incarico che lasciò per assumere quello di fattore baronale che ricoprì fino alla morte. Nel triennio 1789/91 fu anche arrendatore delle rendite feudali delle tre ville di Samugheo, Tonara e Desulo. Nel 1808 concluse un buon affare, acquistando per 5.000 scudi sardi dalla Marchesa vedova d’Albis Donna Maria Francesca Zapata, le tre tanche baronali di Busachi, Allai e Villanova Truschedu. Inoltre nel 1788 ottenne dal Re Vittorio Amedeo III i Reali Diplomi conferentigli i privilegi di Cavalierato ereditario e Nobiltà. La sua spregiudicatezza nel trattare gli affari, unita al vizio di rimangiarsi la parola data e di subornare testimoni quando gli tornava comodo, gli procurarono non pochi nemici, se è vero che nel 1790 non poteva uscir di casa senza timore di venire massacrato in pieno giorno, come affermerà più tardi uno dei generi. Questi era il Nobile Don Francesco Giuseppe Mura, nativo di Paulilatino, appartenente a una famiglia benestante che possedeva in enfiteusi la signoria della montagna Reale di Abbasanta, i cui interessi gravitavano anche su Santu Lussurgiu.
All’inizio del 1790 il Mura si recò per la prima volta a Busachi, per visitare uno zio, e vi si trattenne per alcune settimane. Conosciuta appena di vista Donna Maddalena Mattarés, la figlia maggiore di Don Antioco, senza avere mai avuto con lei alcuna familiarità, ecco che questi combinò in tutta fretta il matrimonio. La vita di Don Antioco era spesso minacciata e lui non aveva parenti pronti a difenderlo. Ma ecco che col Nobile Mura si affacciava uno spiraglio di salvezza: la sua famiglia era molto rispettata e ben considerata a Busachi e in tutto il territorio: legandosi a loro forse non avrebbero più osato minacciarlo. Era inoltre un giovane ricco e non avrebbe chiesto soldi al suocero, insomma era proprio un buon partito. Con queste idee per la testa, la mattina del 2 febbraio del 1790, un venerdì, trattò quindi il matrimonio tra la figlia Maddalena e il Cavaliere Don Francesco Giuseppe Mura, promettendogli una dote di 2.000 scudi più un comune di bestiame di vario tipo. Fatto l’accordo matrimoniale, senza nemmeno aver parlato alla figlia, che pure spasimava per un altro giovanotto, finalmente le fu presentato il fidanzato, convincendola che questo matrimonio era il più vantaggioso ed onorifico che potesse capitarle, e che sarebbe stato l’ancora della salvezza familiare. Costrinse la figlia a celebrare gli sponsali la sera stessa e il 21 marzo successivo, dopo numerosi giorni di pianto, le nozze vennero celebrate nella chiesa di Sant'Antonio, parrocchiale di Busachi.
Dopo le nozze, Mattarés non subì più minacce. Nell’agosto Don Gian Maria Mura donò al figlio Francesco Giuseppe una gran tanca a Paulilatino del valore di più di 1.200 scudi, mentre Don Antioco cominciò a consegnare la dote alla figlia. Ma solo alcuni beni di poco conto, quali le terre peggiori e roba vecchia, come vestiti usati, utensili arrugginiti, vecchie coperte, esaltando il tutto per roba di gran pregio, come una ricca dote, quando il suo valore non arrivava ai 1.000 scudi – cioè meno della metà della dote promessa – e non fu mai possibile ottenere il resto. La nuova parentela acquisita dovette essere proficua al bravo Mattarés, se nel giugno del 1803 fece sposare anche la seconda figlia Donna Giuseppa con l’avvocato Don Nicolò Mura di Oristano, fratello minore del genero. I due fratelli Mura curarono più volte gli affari del suocero, sempre in attesa che questi rilasciasse loro le doti promesse. Il figlio Don Giuseppe, unico maschio nonché erede della famiglia, una volta terminati gli studi a Cagliari si divertiva spendendo più di 5.000 scudi andandosene a vivere a Oristano, poi a Cagliari, Alghero e Sassari, contraendo pure numerosi debiti. La pace familiare cominciò a vacillare nel 1808 quando morì una sorella di Don Antioco, Donna Giuseppa, che aveva in custodia le altre due sorelle Antonica e Giovanna, una delle quali “notoriamente semplice” e l’altra parzialmente alienata.
Ebbene il prode Don Antioco riuscì a convincere queste due a fare testamento a favore del solo nipote Don Giuseppe, lasciandogli tutti i loro beni in quanto maschio e continuatore della famiglia. Nel 1809 anche Don Antioco fece testamento, rivelando i suoi veri intenti: lasciare erede universale di tutto il patrimonio il solo figlio maschio Don Giuseppe, con qualche lascito alla figlia minore, nubile, Donna Maria Antonia. Dopo aver disposto alcuni legati pii ed eletto per sua sepoltura la cappella del Rosario nel convento dei PP. Domenicani di Busachi, di cui era confratello, vestendolo dell’abito, Don Antioco elenca ciò che secondo lui avrebbe già dato in dote alle figlie sposate, attribuendole un valore superiore alla quota legittima. Lascia inoltre il palazzo nel vicinato di Busachi josso alla figlia Maddalena, che già lo abitava e l’altra casa nel vicinato di Busachi susu, sua residenza abituale, contigua a quella delle due sorelle minorate, alla figlia nubile Maria Antonia. Infine istituisce un fidecommesso su tutti gli altri beni a favore del figlio Giuseppe e della sua discendenza; in mancanza di figli, chiama alla successione, in ordine, la figlia minore ancora nubile Donna Maria Antonia e suoi eventuali figli legittimi e in mancanza chiama infine la figlia maggiore Donna Maddalena e la sua discendenza, con esclusione completa della seconda figlia Donna Giuseppa. Ecco che questa, sentendosi ingiustamente privata della sua eredità, assistita dal marito, cita il padre, il fratello e le sorelle per il rilascio della sua porzione.
Va qui spiegato, che la richiesta di Donna Giuseppa era riferita ai beni gananziali, ovvero quei beni accresciuti durante il consorzio coniugale alla sardesca, che dovevano dividersi metà al coniuge superstite e l’altra metà ai figli comuni. Seguito il decesso della moglie, Don Antioco si guardò bene però dal fare un inventario dei beni spettanti ai figli minorenni, e quando le figlie si maritarono, essendo nel frattempo cessato l’usufrutto sulle loro quote di beni materni, avrebbe dovuto consegnarglieli. Don Antioco, dopo una buona sfuriata che non riuscì tuttavia a intimorire la figlia, preparò i suoi piani di difesa, mettendo a punto le armi subdole della menzogna, dello spergiuro, della maldicenza e della corruzione di testimoni, nel cui maneggio era così esperto dopo tanti espedienti. Anche la figlia Maddalena si unì subito alle istanze della sorella, essendo al suo pari stata privata dell’eredità materna. Il padre tentò di convincere il giudice che tutto il patrimonio era di sua sola pertinenza, che la moglie era povera al momento delle nozze, e non possedeva nulla, e che tutti i beni apportati al matrimonio erano stati da lui solo acquisiti coi suoi proventi di ministro di giustizia, prima delle nozze, e che il regime patrimoniale dei nobili prevedeva la separazione dei beni. Nel suo primo testamento Don Antioco lasciò alla figlia Giuseppa una quota ereditaria uguale a quella del fratello: una volta contratte le nozze, lo rifece, togliendo l’eredità alla figlia per darla al figlio maschio, lasciandole solo una tenue dote.
A questo punto le figlie tentano di spiegare che il titolo di “Don” usato da Don Antioco era un semplice titolo “d’officiosità civile, che si impose Don Giuseppe di lui padre secondo l’uso di Porto Longone sua patria”. Volendo passare al grado equestre, Don Antioco ne chiese ed ottenne i privilegi nel 1788 con due distinti diplomi di cavalierato e nobiltà, nei quali non è però chiamato “Don” e non si fa riferimento alcuno ad una eventuale sua antica nobiltà. I privilegi vengono rilasciati infatti per le sue benemerenze acquisite nell’amministrazione e nel pubblico servizio. Va rilevato però che in tutti i documenti precedenti il 1788, relativi sia a Don Antioco che al padre e all’avo, questi sono sempre qualificati col solo “Don”, senza ulteriori qualifiche nobiliari.
Queste compaiono per la prima volta in una certificazione notarile del 1728 rilasciata a Longone, copia di altra copia, - e quindi di dubbia origine - in cui si attesta che la famiglia Mattarés è una delle principali di quella Piazza, e perciò hanno sempre goduto delle preminenze e dei privilegi militari, per i servizi del loro casato e per quelli resi da Don Vincenzo Mattarés che servì da Alfiere della Reale Artiglieria di quella Real Piazza. Anche al momento del suo matrimonio, nel 1769, Don Antioco è qualificato per nobile dal parroco di Busachi. Secondo le due figlie però, non si trattava di vera nobiltà, ma solo di un titolo, per così dire, di rispetto come del resto usano anche in Spagna e nel Meridione d’Italia. In Sardegna però questo trattamento soleva darsi esclusivamente ai nobili e agli alti prelati: i Mattarés, ai quali tale qualifica veniva già data secondo l’uso spagnolo, non appartenendo all’alto clero, vennero ritenuti già nobili. Tutto questo è importante per spiegare la tesi difensiva delle due figlie: se Don Antioco quando si sposò non era ancora nobile, e la moglie morì prima del conferimento dei privilegi nobiliari del 1788, tutti i beni conferiti e gli acquisti fatti durante il consorzio coniugale erano divisibili in società tra i coniugi. I soli beni che Don Antioco ereditò dai genitori consistevano in due chiusi di tre starelli, che gli pervennero  circa diciassette anni dopo la morte ella moglie. (Si noti che le figlie non erano avide come il padre, in quanto chiedevano solo la loro quota sulla mezza porzione materna del patrimonio, che poteva valere per l’intero fino a 20.000 scudi, lasciando le restanti quote al padre e agli altri eredi).
Don Antioco, che era spalleggiato dal figlio Giuseppe e dalla figlia minore Maria Antonia, sfodera allora la carta della menzogna e della maldicenza, accusando la figlia Maddalena di essersi sposata contro la volontà paterna, e che tale matrimonio era gravemente sconveniente per tutta la famiglia, che il padre vi si oppose lungamente, e quando acconsentì fu tacciato per pazzo da tutta la popolazione di Busachi, che riteneva un’ingiuria il solo parlarne. Accusa inoltre il genero di aver avuto problemi giudiziari col governo. Si professa infine un nonno affettuoso e generoso, che tenne con sé la nipote Donna Girolama Mura, figlia di Maddalena, fino all’età di vent’anni, perché portava il nome della nonna Girolama Figus. La figlia e il genero si difendono da queste accuse raccontando le modalità del loro matrimonio, come abbiamo già visto, protestandosi lui innocente da ogni accusa rivoltagli, asserendosi sicuro di non aver mai cagionato lamentela alcuna dal Governo e che la loro figlia abitò si col nonno fino a quando prese marito, ma non era certo trattata con le premure di una nipote, bensì malvestita e aiutando come una serva. Questo evidentemente dopo il matrimonio dell’altra figlia Donna Giuseppa, la quale sostiene anch’essa di aver dovuto fare da serva e cuoca fino a quando si sposò, dovendo fare il pane per la famiglia, confezionando i formaggi e la biancheria, prendendo pure la zappa per sotterrare i denari paterni nei momenti di torbidi. La fortuna cominciava a volgere le spalle a Don  Antioco.
Nel settembre del 1810 il figlio prediletto Don Giuseppe, per il quale si era tanto dato da fare e a causa del quale era nata questa lite, morì in Cuglieri, dove nel frattempo aveva preso in moglie la Nobile Donna Maria Caterina Serralutzu Sanna, e dove si era trasferito da alcuni mesi oppresso da una lunga malattia. Pochi giorni prima di  morire fece testamento, emulando il padre nelle disposizioni. Infatti istituì suo erede universale il suo eventuale figlio postumo, lasciando l’usufrutto alla moglie; nel caso non avesse un erede, nomina in tal caso suoi eredi universali il padre e la sorella minore nubile Maria Antonia. Don Antioco non dovette addolorarsi più di tanto per la scomparsa del figlio, se prese a odiare con maggior veemenza le due figlie maggiori. Rinnegò quindi di aver loro mai promesso alcuna dote, per aver sposato contro il suo volere, accusando i generi di subornare i testimoni per deporre di aver egli promesso una dote di 2.000 scudi, giungendo financo ad accusare un onesto vice parroco, suo confessore abituale, di esserne l’agente. La popolazione di Busachi naturalmente non gli credeva, dando anzi ragione al pacifico e onesto Don Francesco Giuseppe Mura, che accusò a sua volta il suocero di esser stato lui per primo a spargere a bella posta la voce che il genero stesse subornando testimoni facendo ricadere la colpa sul proprio confessore. Finalmente, nello stesso 1810 Don Antioco venne condannato dalla Reale Udienza a presentare entro trenta giorni l’esatto rendiconto di tutti i beni apportati al matrimonio dalla moglie, e di quelli esistenti e acquistati durante il consorzio coniugale. Naturalmente il rendiconto fu fatto a tutto suo vantaggio, rubando sui confini delle terre, addebitando spese per miglioramenti e chiusure non da lui effettuati e raggiri vari, per cui si dovette procedere ad un contraddittorio tra padre e figlie. Nel maggio del 1811 Don Antioco stipulò un atto di donazione inter vivos verso la figlia Maria Antonia e nel settembre successivo dispose un nuovo testamento. Cominciò ad essere più accomodante nei confronti delle figlie sposate, dichiarandosi ben disposto a ceder loro l’eredità materna – cosa che affermava da tempo – dividendola in parti uguali fra loro, a condizione che recedessero “dalla scandalosa e temeraria causa”. In caso negativo, siano diseredate e abbiano solo la legittima, ovvero quanto già avuto, e sia erede universale la sola figlia nubile Donna Maria Antonia. Ormai Don Antioco aveva pochi mesi da vivere: di la a poco sarebbe morto.
La figlia minore, avida non meno del padre, favorita dal nuovo testamento, si sentiva già la nuova padrona e cominciò a dimostrarlo per prima proprio al padre, esautorandolo dal governo e dagli affari di casa, proibendogli di uscire e di parlare se non con chi voleva lei, irretita e coadiuvata da una coppia di amici, Maria Pili e suo fratello sacerdote Antonio, i quali si misero in mezzo a tutti gli affari di casa, vedendosene già padroni. Il vecchio Don Antioco, avvedutosi di quale vipera aveva cresciuto, giunto agli estremi della vita se ne pentì e chiese il viatico, riconoscendo gli ingiusti torti verso le figlie maggiori (che nonostante tutto erano sempre state figlie ubbidienti e rispettose e affezionate ancora al padre).
Chiese quindi di poter riabbracciare la figlia maggiore Maddalena, e di mandarla a chiamare per riconciliarsi e domandar perdono, ma l’altra figlia Maria Antonia, dalle sponde del letto, gridò in faccia al moribondo « che se quella entrava da una porta, essa ne usciva dall’altra », e non ci fu verso di convincerla. Proprio una bella riconoscenza verso le due sorelle maggiori che l’avevano cresciuta e allevata affettuosamente fin dall’età di 11 mesi, quando morì la madre! Chi semina vento raccoglierà tempesta. Don Antioco cercò allora di cambiare il testamento, dividendo finalmente tutto in parti uguali fra le tre figlie. Ma Donna Maria Antonia proruppe in pianti a dirotto e tra strilli ed urla, chiamati i due amici, fece addirittura cacciar via in malo modo dalla camera il parroco venuto a portare i sacramenti, perché avrebbe potuto ricevere anche le ultime volontà del moribondo. Il (poco)Rev. Pili impedì al parroco di rientrare nella camera, con la scusa che quello delirava, ma questo, che era il sac. Don Luigi Serra cavaliere – il cui stemma si può ancora oggi vedere scolpito in marmo nel paliotto dell’altare della cappella di Sant'Efisio nella chiesa parrocchiale di Busachi – gli rispose che casomai in delirio era lui. Privato della presenza del Rettore Serra, delle figlie maggiori e di qualunque estraneo, Don Antioco si chiuse in un silenzio ostinato, attendendo la sua ultima ora, che giunse nella notte del 14 dicembre 1811. Seguito il decesso del genitore, tutti si aspettavano che le tre sorelle dividessero l’eredità in parti uguali, da buone sorelle, recedendo dalla causa. Invece no, la figlia Maria Antonia pretendeva tutta l’eredità paterna, dimostrando ancora una volta l’odio verso le sorelle anche con un altro episodio di pubblico scandalo. Appena qualche giorno dopo i funerali, nell’uscir da chiesa, questa vide una serva della sorella Maddalena che con alcune sue figlie piccole, si avviava verso la propria casa. Portava in capo un fazzoletto nero, in segno di lutto verso la padrona. Ebbene, Donna Maria Antonia la raggiunse di corsa attraverso la piazza e raggiuntala, le strappò via il fazzoletto, ricoprendola di insulti e contumelie, minacciandola di non farsi più vedere col lutto addosso, e questo davanti a tutti i fedeli che erano appena usciti da chiesa. La povera donna replicò, molto pacatamente, che lei portava il lutto per rispetto verso la sua padrona, e che se le due sorelle avevano da ridire, se la vedessero tra loro.
Col passare delle settimane Donna Maria Antonia non si dimostrò all’altezza di curare il patrimonio per il quale si era resa colpevole di episodi così poco edificanti: il bestiame grosso e minuto cominciava a sparire ad opera degli stessi pastori, per cui le sorelle maggiori si videro costrette a proseguire la lite. Siccome non era stato possibile rogare un nuovo testamento, restava valido l’ultimo nel quale il padre la lasciava erede universale, convalidandole l’ultima donazione fattale e diseredando le sorelle maggiori. Fu perciò necessario che queste, citando nuovamente la sorella Maria Antonia, rinunciando alla quota dei beni paterni, facessero ricadere tutta l’eredità in attivo e in passivo su quest’ultima, impugnando il testamento paterno e l’ultima donazione fattale. Come testimoniato anche dal parroco il Rettore Serra, questa si era resa indegna verso il genitore morente di riceverne l’eredità, per questo motivo le sarebbe dovuta spettare la sola legittima. Nel giugno del successivo 1812, dopo alcuni inutili tentativi di Donna Maria Antonia di accettare solo la parte attiva dell’eredità ma non i debiti, si propose un accordo in base al quale le tre sorelle avrebbero conferito tutti i beni avuti dal padre; saldati i debiti paterni si sarebbero eseguiti i legati pii disposti dal padre e quelli lasciati dal fratello Don Giuseppe alla moglie Donna Caterina Serralutzu, assegnando a questa ancora 1.000 scudi in qualità di erede del marito, indi dopo assegnata alla sorella Maria Antonia o la casa paterna con tutti i mobili esistenti, per un valore di scudi 1.200, oppure, a sua scelta, la tanca denominata “terra de Piu”, si sarebbe divisa tutta la restante eredità in tre parti uguali.
Le cause ereditarie per questioni di dote dovevano essere un vizio di famiglia: se ritorniamo alle sorelle di Don Antioco, vediamo come anche la sorella Donna Giovanna, quella “parzialmente alienata”, nel 1795 dovette intraprendere una causa durata ben 11 anni colle sue tre figliastre per la restituzione della presunta dote apportata quando contrasse matrimonio col Nobile Don Teodoro Cocco Angioy di Paulilatino. Secondo la sua versione, quando contrasse matrimonio col Nobile Cocco, già vedovo per due volte, intorno al 1787, Donna Giovanna portò in dote la somma di 400 scudi in denaro, cioè 1.000 lire sarde, tre paia di lenzuoli, una fànova (coltre), un cortinaggio di tela detto in lingua materna pabelloni, tre dozzine di salviette ed una caldaia. Questo fu quanto richiesto da Donna Vittoria Aquenza, cognata di Don Teodoro e parente della sposa, quando si combinò il loro matrimonio attraverso la sua opera di paraninfa. Secondo la testimonianza dello stesso Don Antioco, fu proprio lui a contare, numerare e consegnare allo sposo il denaro in due distinte occasioni, e cioè 100 scudi al momento della contrazione degli sponsali, tutto in mezzi scudi sardi, che Don Teodoro prese come anticipo per accomodare la casa ed accogliere decentemente la sposa; gli altri 300 glieli consegnò il giorno successivo alla celebrazione del matrimonio. Alla consegna, sempre secondo Don Antioco, sarebbero state presenti anche la loro madre, con la quale allora vivevano, le sorelle e le due figlie maggiori di Don Antioco.
Questa versione fu confermata anche da Donna Vittoria Cocco Aquenza, che disse di averla sentita solo dai Mattarés e da Don Teodoro che glielo riferì prima di partire per Simala, dove viveva con le tre figlie degli altri matrimoni. Per “disgusti insorti”, dopo quattro o cinque anni Don Teodoro e Donna Giovanna decisero di separarsi. Don Antioco Mattarés chiese allora al cognato la restituzione della dote ricevuta.  Il Cocco rispose in due distinte lettere che lo avrebbe effettuato in varie rate per non poterlo fare tutto in una volta. Queste lettere, dopo la sua morte, che fu a pochi mesi dall’inizio della causa, le consegnò al primo avvocato della causa, il Comm. Don Bonaventura Cossu Madao, il quale non poté produrle, poiché avendo trasferito le sue carte da una stanza all’altra, si rovinarono. I soldi e gli utensili, sempre secondo la sola testimonianza di Mattarés, non vennero mai restituiti.   Dopo la separazione e priva totalmente di beni, Donna Giovanna fu accolta in casa dalle sorelle, diversamente le sarebbero mancati pure gli alimenti  e il giusto decoro nel vestire corrispondente al suo grado. Citate in giudizio, le sorelle Donna Stefania, assistita dal marito Don Giuseppe Salis, Donna Rita e Donna Raimonda Cocco e rispondono in Simala il 12/3/1796 di essere sì figlie del fu Nobile Don Teodoro Cocco, ma non di essere state sue eredi cum effectu, considerato che con la morte del padre non ereditarono sua cosa propria che potesse ascendere al valore di 3 cagliaresi, e che ignoravano totalmente che Donna Giovanna Mattarés avesse apportato al matrimonio che la immaginata partita di un “dianarillo”. Dal canto suo, la Mattarés chiede il beneficio dei poveri, asserendo di non possedere altri beni oltre quelli apportati al matrimonio, dei quali chiede la restituzione. Sempre secondo la difesa delle figliastre, non solo la Mattarés non è in grado di giustificare le sue pretese, ma deve pure restituir loro le robe e pegni d’oro ed argento che asportò dalla loro casa paterna e tuttora detiene, perché di loro pertinenza in quanto parte dell’eredità delle rispettive loro madri, le furono Nobili Donna Cecilia e Donna Maria Diana, e consistenti in otto fazzoletti di mussolina finissima, una camicia di tela trues fina, un paio di bucole d’argento di peso scudi 5, una croce d’oro ed un paio di orecchini d’oro tra l’una e l’altro del valore di scudi 40, più 3 paia di calzette di filo fino, sei paia di scarpe e tre anelli d’oro, di cui uno fornito di 7 pietre fine, l’altro di una pietra di diamante, detto volgarmente “arra”.
Inoltre sostengono che il proprio padre non possedeva beni liberi oltre quelli vincolati nel fidecommesso familiare di Paulilatino, del quale era erede Donna Stefania, in qualità di figlia primogenita. Essendo però il fidecommesso deperito in gran parte dei suoi cespiti a causa dell’incuria dello stesso Don Teodoro che lo abbandonò, Don Giuseppe Salis, per conto della moglie e dei suoi figli, eredi del maggiorasco, risponde che non avrebbe pagato nulla fino al risarcimento dei danni subiti nel fidecommesso.
A questo punto Donna Giovanna Mattarés si difende spiegando che quando viveva col marito tutte le stanze della casa erano aperte, a tutta comodità sua e delle figlie; queste però tenevano la chiave del forziere dei gioielli d’oro e d’argento, dei vestiti e robe della loro madre Donna Cecilia Diana; il marito pure teneva la chiave del forziere della figliastra minore Raimonda, dove stavano le robe e le gioie d’oro e d’argento della madre Donna Maria de Forru. Continua raccontando di avere solo la chiave di un forziere di Raimonda dove c’erano alcune pezze di lino di poca bontà e valore, dove conservava i suoi utensili che portò in dote, consistenti in 3 paia di savanas (lenzuoli) di tela sarda, un pabellon (cortinaggio di tende) pure di tela sarda, una fànova (coltre) di lino, 12 servilletas (asciugamani) e i suoi vestiti quotidiani e festivi. Da queste arche non prese mai furtivamente la minima cosa: ritirò solamente al tempo della sua separazione le gioie e pegni d’oro e d’argento che il marito Teodoro le diede a titolo di “arras” (gioielli di fidanzamento) subito dopo che si diedero parola di futuro matrimonio, un anello d’oro con una sola pietra rossa che, salvo errore gli aveva regalato sua suocera Donna Maria Diana; la prima volta che la visitò dopo il giorno della stipulazione del contratto nuziale le regalò un anello d’oro guarnito di vari diamanti e una piccola “arra” con alcune pietroline rosse. In quanto agli orecchini e crocetta d’oro che le donò al tempo della celebrazione del matrimonio, questi non sono in maniera alcuna delle pretendenti sorelle Cocco ed eredi Salis, in quanto derivano da un grande anello d’oro, comunemente detto de mucadore, anticamente usato, che lei diede al marito che lo portò a Cagliari per farci tali gioielli. Non sa però quanto avesse speso di suo per questo. Sempre in occasione della celebrazione del matrimonio le donò ancora un paio di “evillas” d’argento (fibbie o fermagli, specie da cintura) del valore di circa 5 lire, più quattro pañuelos, due di mussolina usata, uno di seta rossa ed uno di hierva. Le diede solo un paio di scarpe usate che per non poterle calzare gli restituì. Riguardo poi alla camicia di tela trué, la verità è che il marito vide nella casa di Simala un paio di maniche da camicia di questa tela e gliene fece dono: aggiungendole ad altro panno suo proprio, se ne fece una camicia. In quanto alle calzette di lino fino, un solo paio usato gliele diede il marito, altre due paia di filo suo proprio gliele fece la figliastra Rita Anna e un paio gliele fece, sempre con filo di lino suo proprio, Pepa Antonia Caria maestra in casa delle sorelle Cocco. Questo soltanto è quanto ebbe in dono e regalo dal suo defunto marito e che ritirò quando se ne partì, lasciando in casa del marito tutti gli utensili portati in dote e un caldaio del valore di 5 scudi. Non sa se tutti gli altri oggetti fossero propri del marito o di qualche altra persona. Su queste basi e per il riscontro delle testimonianze, il suo avvocato chiede la condanna delle sorelle Cocco, non potendo dubitarsi che la sua dote fosse stata effettivamente consegnata e ritirata dal marito dopo il matrimonio.
Dal canto suo, l’avvocato degli eredi Cocco e Salis controbatte che le deposizioni a favore di Donna Giovanna non possono considerarsi valide, giacché il fratello Don Antioco non può portarne alcuna prova e quella di Donna Vittoria Aquenza è basata sulla presunta affermazione fattale dallo stesso Don Teodoro Cocco di aver ritirato gli effetti dotali dopo il matrimonio. Inoltre, da diverse testimonianze della parte avversa, appare provato il reale deterioramento subito dai predi del fidecommesso familiare da quando il padre ne entrò in possesso. Per sua colpa, tutti i beni erano incolti ed in rovina: se il padre avesse lasciato beni liberi, loro sarebbero stati ben più contenti perché sarebbero serviti per indennizzare i danni arrecati al fidecommesso. Essi non chiedono la restituzione di beni paterni, ma la restituzione dei gioielli delle loro madri, che la Mattarés vorrebbe tenersi col pretesto di esser doni nuziali.
La Reale Udienza, ritenute valide le prove a favore di Donna Giovanna Mattarés di esser stata la sua dote effettivamente consegnata dopo il matrimonio e di aver avuto tutti i gioielli in dono dal marito, non essendone stata provata la furtiva sottrazione, condanna con sentenza del 24 settembre 1805 le sorelle Cocco, in quanto eredi del padre, alla restituzione a favore della matrigna dei 400 scudi in denaro e degli alti effetti dotali o del loro corrispondente valore.
Gli eredi Cocco e Salis tentarono inutilmente appello dimostrando con testamenti ed inventari che il proprio padre non aveva lasciato loro altri beni oltre quelli deteriorati del fidecommesso, che devono essere indennizzati.
 La Reale Udienza, sentite le nuove relazioni delle parti legali, in data 23 settembre 1806 conferma la precedente sentenza e tempo un anno, Donna Giovanna Mattarés viene risarcita del dovuto.

Clicca qui per vedere l'albero genealogico