Il feudo di Ittiri e Uri

Le vicende feudali di Ittiri Cannedu e di Uri si articolano nell’arco di cinque secoli in maniera scomposta e discontinua.
All’inizio del 1421 la Sardegna sembrava ormai pacificata e quasi totalmente sottomessa; il Magnanimo, con il prezioso aiuto del Viceré Don Bernardo Centelles De Ryusech e Corbera, Signore di Nules, Oliva e Rebollet, nonché Maresciallo e Siniscalco di Sicilia e Aragona, celebrava in Cagliari il secondo parlamento sardo. Don Bernardo, che aveva organizzato la spedizione di Re Alfonso, vantava perfino un vistoso credito nei confronti della Corona per aver contribuito alla definitiva liquidazione delle pretese del Visconte di Narbona. Questi meriti spinsero il Sovrano d’Aragona a concedere al Centelles, con diplomi del 15 febbraio 1421 e 20 agosto 1424, l’investitura feudale dell’enorme Signoria di Oliva, che si estendeva, per un sesto dell’isola, nei territori compresi nelle antiche curatorie di Coros, Montes, Figulina, Oppia, Nughèdu e Montacuto, di Meilogu, Anglona, Costavall, di Marghine e Goceano. Secondo il costume italico la concessione ultima, nella sua struttura formale, riconosceva al Centelles la giurisdizione civile e criminale, mero e misto imperio per tutti i feudi.
Attorno al 1433, in seguito alla morte di Don Bernardo, l’amministrazione del vasto complesso feudale passò al figlio Don Francesco Giliberto, nato da Donna Eleonora de Queralt. Francesco Giliberto fu nominato nel 1437 governatore di Logudoro e il 24 giugno 1438 otteneva come gli altri grandi baroni sardi di poter alienare o trasmettere i feudi ai suoi discendenti per via femminile e collaterale, anche ab intestato, senza pagarne il diritto di laudemio.
Le successive difficoltà finanziarie, dovute agli impegnativi oneri finanziari derivanti dal suo rango e la necessità di assegnare la dote alle sorelle Caterina e Violante, portarono alla cessione di parte dei suoi possedimenti, determinando così la formazione di altri feudi minori. Nel 1438 egli donò alla sorella Violante (moglie del sassarese Angelo Cano) la villa di Osilo. Successivamente, il 14 marzo 1447, Angelo Cano smembrava la baronia di Osilo, restituendo il villaggio di Osilo al cognato Francesco Gilaberto, futuro conte di Oliva, e tenendo per sé solamente cinque ville del coracense: Itiri Cannedu, Uri, Tissi, Ossi, Usini e quella di Muros, sotto la nuova denominazione di Baronia di Usini o San Giorgio.
Lo stesso Angelo chiese ed ottenne di poter lasciare la baronia alla figlia Antonia, in vista delle nozze con il cavaliere Valenzano Pietro Cedrelles.
Alla morte di Antonia (che fu molto longeva e sopravvisse ad entrambi i mariti ed ai figli tutti) si accese una lite fra i suoi sette nipoti: Giovanni Girolamo, Tommaso, Giovanni Pietro, Ludovico e Galzerando (figli di Vincenzo Girolamo Cedrelles-Cano); e Giovanni e Anna, figli di Gaspare Fabra Cano (a sua volta figlio nato dal secondo matrimonio di Antonia con Giovanni Fabra).
La lite fu risolta il 9 marzo 1512 quando il Supremo Consiglio d’Aragona emanava sentenza favorevole a nome di Don Galzerando.
Don Galzerando prese in moglie Donna Giovanna Carrillo, figlia del Procuratore Reale Alfonso, Signore dei Feudi di Torralba e Costavall; da quel matrimonio erano nate Donna Angela, sposata a Don Pietro Angelo Tola-Soliveras, e Donna Isabella, moglie di Don Andrea Manca-Cano.
Trovatosi in ristrettezze economiche e carico di debiti, Galzerando chiese ed ottenne il regio assenso per smembrare il feudo, per cui vendette il 23 giugno 1542 in allodio il villaggio di Uri a Don Bernardo Simò; alla stessa maniera vendette il 21 aprile 1543 la villa di Iteri Canneto al consuocero Don Giovanni Manca Ram (per 7.250 ducati d’oro). Il Manca a sua volta vendeva nel 1544 Ittiri allo stesso Don Bernardo Simò per 8.370 ducati d’oro.
Don Bernardo ebbe cinque figli: Anna (che divenne moglie di Don Michele Carrillo); Giovanni Michele, Andrea (che sposò Antonia Nin); Dorotea e Marco Antonio (canonico in Barcellona).
Secondo quanto risulta dai capitoli matrimoniali, stipulati il 24 giugno 1546, Don Bernardo Simò donò le ville di Ittiri, Uri, San Leonardo di Cuga, Monteleone e Romana con il Salto Mannu e quello di Campu Bous al primogenito Giovanni Michele, in vista del matrimonio di questo con Donna Elena Bellit, figlia di Don Pietro Ludovico.
L’atto di donazione prevedeva il Majorasco, per cui si stabiliva che, se Giovanni Michele fosse morto senza discendenti, i feudi sarebbero pervenuti al parente più prossimo, osservando naturalmente l’ordine di primogenitura ed il divieto di alienare, vendere, dare in pegno o trasferire le ville che li componevano, con l’obbligo di assumere il cognome e le armi del donatore.
Don Giovanni Michele, tra il 1544 e il 1545 acquistò da Donna Isabella di Villamarì, la parte del territorio del Monteleone in possesso della città di Bosa.
Nel 1549 Don Giovanni Michele chiese ed ottenne dall’Imperatore Carlo V l’investitura dei feudi ma, dopo la sua morte (avvenuta tra il 1555 ed il 1559), rimase unica erede sua figlia Donna Giovanna. Data la sua minore età, queste proprietà furono affidate alla cura tutelare della madre Donna Elena.
Venuta a mancare Donna Giovanna Simo’- Bellit, si accese una lite per la ricca eredità dei feudi di Casa Simò, lite che vide da una parte Donna Elena (frattanto sposata con Don Agostino Gualbes) e dall’altra i nipoti di Don Bernardo Simò: Maria ed Eleonora Simò Nin, figlie del defunto Don Andrea; Sebastiano, Anna e Francesco Carrillo Simò, figli di Don Michele e Donna Anna.
Il Supremo Consiglio d’Aragona, nel 1567, assegnava definitivamente il maggiorasco di tutti i feudi al giovane Don Sebastiano Carrillo Simò, unico rampollo superstite discendente da Casa Simò.
I problemi finanziari costrinsero Sebastiano, nel 1570, a vendere l’incontrada di Monteleone ai Roccamartì e nel 1578 le ville di Bonorva, Rebeccu, Semestene e Terquiddo al cognato Gerolamo Ledà. Nonostante ciò rimaneva a Sebastiano la Baronia di Ittiri e Uri e la Signoria di Torralba con Bonnanaro e Borutta.
Dai matrimoni di Sebastiano con la cagliaritana Donna Maria Zapata Alagon e con Beatrice Comprat nacquero almeno otto figli tra cui Isabella (moglie del Veguer di Alghero Don Gerolamo II Ledà) e Giovanni, unico rampollo ed erede dei feudi.
Dal matrimonio di Donna Isabella Carrillo Simò Zapata e Gerolamo II Ledà nacquero, tra gli altri: Don Gerolamo III, Don Francesco Simone, Don Giovanni Battista e Donna M. Caterina Ledà. Don Giovanni Carrillo sposava invece a Cagliari Donna Ippolita Artez Carroz e da questa unione nascevano Feliciana Vincenza (morta bambina), Ignazio e Teodora. Don Giovanni parteciperà alle Cortes del 1614 presiedute dal Duca di Gandia e probabilmente morirà poco dopo.
Don Ignazio Carrillo, erede dei beni paterni e in quegli anni ancora in età minore, veniva posto sotto la cura tutelare della madre prima e del patrigno Michele Comprat, secondo marito della madre.
La morte di Ignazio, avvenuta nel 1630, scatenava una lite che trascinerà tutte le famiglie a lui imparentate e che avrà fine quando un Re Savoia assegnerà definitivamente il Feudo di Ittiri e Uri alla Casa Ledà.
La Reale Udienza, in data 18 novembre 1633 assegnava, richiamandosi al Majorasco Simò del 1546, l’eredità della Baronia di Ittiri e Uri a Don Francesco Simone Ledà in quanto figlio di Isabella Carrillo ed escludendo pertanto la cugina prima Teodora.
Morto Francesco Simone e nel 1677 il figlio Francesco Simone Gerolamo e pochi anni dopo i figli di quest’ultimo, entrò nella disputa anche il ramo cadetto dei Ledà con Don Gerolamo IV, cugino primo di Francesco Simone Gerolamo. Continuava nel frattempo la lite circa il possesso del feudo, con Isabella Trelles (figlia di Teodora) che persisteva nel volere la Baronia di Ittiri e Uri in quanto bene allodiale, e quindi trasmissibile per ordinaria successione ereditaria piuttosto che un vero e proprio feudo soggetto alla successione fidecommissaria. In base a questo ella sosteneva essere legittima erede dell’ultimo Barone proprietario Don Ignazio Carrillo Artez.
Nel 1717, all’età di 73 anni, moriva a Sassari Don Gerolamo IV Ledà Fois, per cui la lite per il “recupero” delle ville di Ittiri e Uri proseguì col figlio Antonio Simone e, alla sua morte avvenuta nel 1735, col figlio Gerolamo V.
Don Gerolamo, nel tentativo di mantenere la potestà dei feudi, dovrà suo malgrado affrontare una serie di dispendiose liti che porteranno la Casa Ledà al tracollo finanziario. Le liti in corso, infatti, avevano distrutto economicamente i Ledà costringendoli ad usare ed abusare di tutti i mezzi a loro disposizione per spremere i loro vassalli, tentando di recuperare i danari necessari a tenere vive le liti. Proprio la mala amministrazione e le vessazioni dei Ledà finirono per determinare nelle due ville una crisi economica talmente profonda da rendere la vita nel feudo molto precaria.
Dopo 138 anni di dispendiose controversie nei tribunali di Madrid, di Torino, di Cagliari e Sassari, il Monarca Savoia determinò l’assegnazione della Baronia alla Casa Ledà. Veniva quindi confermato il possesso del feudo a Don Gerolamo Ledà Vaca quale discendente per linea femminile dei Carrillo Simò Zapata.
Il 7 febbraio 1770 Carlo Emanuele III di Savoia approvava in Torino la transazione ed emanava Regio Diploma con il quale conferiva a Don Gerolamo il titolo trasmissibile di Conte di Ittiri e Barone di Uri. La concessione delle due ville evidenziava una struttura formale apparentemente contrastante, che può essere definita di natura mista: feudo retto e proprio, libero e franco allodio: in quanto alienabile tra vivi previo consenso del Re, ma non sottoponibile a censo o ipoteca in pregiudizio del Regio Patrimonio, era allodiale; meramente mascolino, conservava le caratteristiche di feudo del costume italico, quindi l’obbligo del giuramento e la prestazione del servizio militare con l’esercizio della giurisdizione civile e criminale, mero e misto imperio. Il Ledà Vaca fu abilitato e poté esercitare la giudicatura in prima istanza e l’autorità di eleggere un delegato o altri impiegati per amministrare giustizia; la giudicatura di seconda istanza rimase invece al Sovrano.
Con la morte di Gerolamo V, il figlio Antonio divenne 2° Conte di Ittiri e Barone di Uri. Ad Antonio succedette Gerolamo VI e a lui Antonio, 4° Conte di Ittiri e Barone di Uri che cedette il feudo incassando una somma di 208.807,13.4 lire sarde.
Finalmente, dunque, nel 1839 i 4.155 popolani di Ittiri e gli 863 di Uri, sia pure dopo mille peripezie, ottenevano a caro prezzo l’agognato affrancamento dai Ledà coronando quel sogno iniziato sin dal 1765.
L’abolizione del vecchio regime non migliorò le condizioni economiche dei vassalli che si vedevano sottoposte dal governo centrale al pagamento di maggiori tributi in danaro, anche e soprattutto a causa della eccessiva dichiarazione dei redditi in favore dell’ultimo feudatario. Nonostante questo Ittiri Cannedu, a distanza di pochi anni, era già divenuto, per l’operosità dei suoi abitanti, uno fra i più ricchi e popolati centri dell’isola.