I Centelles, Signori di Monteacuto

Le vicende feudali del Monteacuto nei secoli XV e XVI sono legate a quelle della famiglia dei Centelles, signora di vaste contrade nel centro-nord della Sardegna, e possono essere seguite, in un contesto di eventi di grande rilievo, scandentisi come in una tragedia antica.
L'Incontrada dalla fiorente agricoltura, ricca di grandi allevamenti, aveva vissuto le ultime vicende del Giudicato d'Arborea e ne aveva seguito le sorti fino alla morte di Mariano V. Già a partire dalla fine del sec. XIV vi ebbero rinomanza famiglie come i Tola, appartenenti al ceto della vecchia nobiltà giudicale e che successivamente rimarranno attaccate ai marchesi di Oristano, quasi ad esprimere quello spirito di indipendenza nei confronti dell'invasore catalano, tipico di queste regioni.
Dopo la battaglia di Sanluri e la morte di Martino il Giovane, il Montacuto fece parte di questi territori settentrionali che consentirono a Gugliemo III di Narbona, Giudice d'Arborea, di continuare per alcuni anni a mantenere un segno di indipendenza. Erano quelli tempi tragici per i Sardi e non meno tristi per i Catalani; la battaglia di Sanluri segnò la fine del Giudicato d'Arborea che non resse al cambio di dinastia. Dopo la sconfitta, Leonardo Cubello, discendente da un ramo collaterale della famiglia giudicale, assediato in Oristano, venne ad un compromesso con Pietro Torrelles, rinunciò al titolo di Giudice ed ebbe in feudo i tre Campidani di Oristano, il titolo di Marchese di Oristano e di Conte del Goceano; Guglielmo di Barbona invece non rinunciò al suo titolo e, rifugiatosi nel nord dell'isola, vi si sostenne.
La situazione dei Catalani non era migliore; dopo la morte di Martino il Vecchio l'antica dinastia dei conti di Barcellona era estinta, si apriva una crisi dinastica lunga e complessa, che contrappose a Ferdinando di Antequera Giacomo di Urgell. La situazione sembrava favorire la rivincita del Narbona, militarmente e diplomaticamente debole, il quale, ad una ripresa delle ostilità, preferì instaurare delle trattative con Pietro Torrelles, che rappresentava in Sardegna il potere reale, dopo l'estinzione dell'antica dinastia.
Nel gennaio del 1411 però Pietro Torrelles morì e i catalani di Sardegna, lontano avamposto abbandonato a se stesso, ai quali arrivavano i riflessi della situazione venutisi a creare nella madre patria, si divisero. Nella Sardegna settentrionale, ad Alghero, sembrava che prevalesse la politica della soluzione diplomatica dei rapporti con il Narbona, impersonata da Giovanni Corbera luogotenente designato dal Torrelles; a Cagliari finì per prevalere la politica di Berengario Carroz, conte di Quirra, incline ad una soluzione militare della controversia con il visconte di Narbona.
Di fatto la situazione non si evolvette, nonostante i tentativi del Carroz contro Macomer e quelli del Narbona su Alghero, quando nel giugno 1412, dopo il compromesso di Caspe, Fernando di Antequera divenne re. Il nuovo re mandò in Sardegna Acarto de Mur con funzione di Governatore e di riformatore del Capo di Cagliari e di Gallura; si aprì così un periodo confuso nel quale finì per prevalere una soluzione negoziata del problema. Un primo accordo fu concluso nel giugno 1414: il visconte rinunciava ai suoi diritti dietro il compenso di una forte somma di denaro, ma l'insolvenza reale, la morte di Ferdinando I, l'ennesima ribellione delle popolazioni sarde procrastinarono la soluzione del contrasto. Le trattative furono ripetutamente riprese, il Narbona abbandonò la Sardegna nel 1417 lasciando però a Sassari i suoi funzionari e solo nel 1420, dopo l'arrivo di Alfonso V, la situazione fu definitivamente conclusa.
La Sardegna sembrava pacificata, il nuovo sovrano fu in condizione di celebrare a Cagliari, all'inizio del 1421, il parlamento, grazie all'impegno del nuovo viceré Bernardo Centelles, signore di Nules, Oliva e Rebollet, maresciallo e siniscalco di Sicilia e di Aragona. Egli, il 15 febbraio 1421, divenne signore di Anglona, Marghine, Osilo, Meilogu, Monteacuto e Goceano, iniziando la serie dei signori di un vasto complesso feudale nel quale la nostra incontrada fu incorporata.
Apparteneva ad una grande famiglia, legata da secoli alle sorti della monarchia catalana, sulle cui origini i genealogisti avanzano ipotesi non concordi. Gli storici catalani, legandosi alle tradizioni, favoleggiano di un Cataldo di Craon, venuto con Carlo Magno alla conquista della Mancia Ispanica, ed investito del sito di Centelles nel 792 e lo indicarono come iniziatore della schiatta. Una tradizione storiografica più recente vuole che discenda da un Everardo di Koenigseek, un conte svevo, venuto in Catalogna alla fine del secolo XII, sposato con una Cardona e morto nel 1203. Di certo, da questa sottile diatriba emerge l'identità dello stemma tra i Centelles e i Koenigseek e la grande rinomanza della famiglia. Si tratta di una di quelle famiglie che seguirono i sovrani aragonesi nelle loro imprese di espansione mediterranea: un Pietro e un Giliberto seguirono il re Pietro in Sicilia nel 1282; un altro Giliberto fu alla corte di Roberto d'Anjou, re di Napoli, e fu suo luogotenente generale in Romagna; ancora un Giliberto morì in Sardegna durante la campagna dell'infante Alfonso.
Il nostro personaggio discendeva dal ramo dei Centelles che si era trapiantato nel regno di Valenza. Egli discendeva da un Giliberto che era stato il primo signore di Nules; suo nonno, un Pietro, aveva sposato Raimonda Ryusech appartenente ad una grande famiglia valenzana imparentata con i Carroz. Il padre di Bernardo, Giliberto, prese a portare anche il nome materno, come successivamente fecero i suoi discendenti.
La famiglia fu coinvolta nelle fazioni che dilaceravano la feudalità valenzana e si distinse sempre per l'attaccamento ai sovrani aragonesi dei quali continuò a seguire le imprese. Alla fine del secolo XIV il giovane Bernardo e suo fratello Giliberto, proprio a causa delle fazioni valenzane, furono costretti a lasciare la patria e a seguire Martino il Vecchio in Sicilia, dove quest'ultimo era impegnato a consolidare il trono di suo figlio. I due fratelli ebbero storie differenti: Giliberto sposò Costanza Ventimiglia, figlia del conte di Collegano, eredità quel feudo e diede vita al ramo siciliano della famiglia; la sua discendenza ebbe un ruolo considerevole nella tormentata storia feudale di quell'isola, ma si estinse prima della fine del secolo XV.
La storia di Bernardo è più complessa, il futuro signore del Monteacuto era una personalità di rilievo ed aveva notevoli capacità politiche. Egli giunse in Sicilia alcuni anni dopo suo fratello, era già sposato con Eleonora de Queralt, la cui famiglia vantava potenti relazioni. In Sicilia riuscì ad entrare nella benevolenza di Martino il Giovane, che nel 1406 lo investì della signoria di Naso, un feudo libero tornato recentemente sotto controllo reale; al feudo era connesso l'ufficio della castellanìa di Capo d'Orlando. Il re lo nominò suo camerlengo ed egli si adoperò nell'allestimento della spedizione in Sardegna, vi partecipò, fu alla battaglia di Sanluri e successivamente assistette alla morte del sovrano. Tornato in Sicilia alla fine del 1409, apprese la notizia della morte di suo padre, per cui, con speciale salvacondotto reale, dovette tornare in Valenza per sistemarvi l'eredità paterna. Qui giunto, dopo la morte di Martino il Vecchio, fu nuovamente implicato nelle fazioni dell'aristocrazia valenzana. I suoi parenti infatti erano coinvolti in una lotta con i Villaragut, lotta che aveva trasformato il regno di Valenza in un campo di battaglia; dopo la morte del re, convocato il parlamento a Barcellona, fu deliberata la costituzione di una delegazione che pacificasse le fazioni che sconvolgevano Valenza ed Aragona; nel contempo cominciavano però a delinearsi le candidature alla successione della dinastia estinta e le fazioni tra l'aristocrazia ripresero. Il nostro Bernardo non pensò più di tornare in Sicilia, gli interessi che la famiglia aveva nel regno di Valenza e l'intuizione della portata che avrebbe potuto avere un cambio di dinastia sugli equilibri di potere lo indussero a restare in patria.
I Centelles si legarono a Ferdinando di Antequera la cui candidatura alla successione in un primo momento sembrava improbabile, ma quando le fazioni che sostenevano le candidature di Luigi di Anjou Calabria e di Giacomo d'Urgell si affrontarono in guerra aperta, il Trastamara mandò le sue truppe in Valenza ed Aragona per ristabilirvi la pace e i Centelles furono con lui. Bernardo quindi si inserì nella situazione, fu tra i principali protagonisti dello scontro di Morvedre in cui gli odiati Villaragut e il partito antritrastamara furono sconfitti e furono poste le basi perché Ferdinando potesse essere eletto re. Quando il Trastamara divenne re lo seguì fedelmente, contribuendo alla sconfitta del conte di Urgell e Ferdinando ricompensò la sua fedeltà nominandolo senescalco d'Aragona e di Sicilia.
Con Alfonso V la sua posizione non mutò e il nostro continuò ad essere uno dei personaggi più influenti della corte; si spiega così la funzione che svolse nella predisposizione della spedizione del Magnanimo in Sardegna. Fedele interprete della politica mediterranea del nuovo re, Bernardo contribuì alla definitiva liquidazione delle pretese del visconte di Narbona ed alla celebrazione del parlamento di Cagliari nel 1421, nell'isola oramai completamente sottomessa.
Il re lo nominò viceré di Sardegna e il 14 febbraio 1421 gli diede l'investitura feudale di Montacuto, Anglona, Meilogu, della baronia di Osilo e della contea del Goceano. Nei due diplomi di investitura si fa riferimento ai rilevanti servigi che Bernardo aveva prestato alla corona e ad un credito che vantava nei confronti del re per 22.000 fiorini d'oro d'Aragona. Nella sua struttura formale l'infeudazione non si discosta da quelle che i sovrani aragonesi erano soliti concedere ai beneficiari dei feudi sardi; le terre erano concesse “in feudum tamen et ad propriam naturam feudi juxta morem Italiae”, e “cum omni jurisdictione…retinentes nobis merum imperium cum gladii potestate, dominium, laudemium, et faticam… et omnia et singola quae secundum morem feudorum Italiae dominus major et Princeps habet et habere debet in feudis propriam naturam feudi habentibus, exceptis premissis”.
La concessione rientra quindi nel vasto riassetto territoriale e giurisdizionale della Sardegna attuato dalla Corona dopo la liquidazione delle ultime resistenze arborensi e che portò alla costituzione dei feudi di notevole estensione territoriale, affidati a persone fedeli alla politica reale e posti in zone di particolare importanza strategica.
Il Montacuto si trovò quindi inserito in un complesso territoriale che formava una fascia intermedia separando Sassari dal marchesato di Oristano e gli ultimi feudi dei Doria da zone di facile espansione. L'abilità e il prestigio del nuovo feudatario erano una garanzia per la Corona in una terra troppo recentemente pacificata. Il complesso territoriale oggetto dell'investitura aveva dei problemi politico-amministrativi di non facile risoluzione: l'Anglona confinava a Nord con il territorio di Castelgenovese, tradizionale roccaforte dei Doria, la baronia di Osilo era stata teatro di scontri armati tra pretendenti diversi, il Mejlogu, terra di antico possesso giudicale, confinava anch'esso con le terre di Niccolò Doria, il Marghine e il Goceano rientravano nell'area tradizionale di espansione arborense ed erano stati negli anni precedenti oggetto degli interessi di Leonardo Cubello, marchese di Oristano.
In particolare il nuovo feudatario sembrava avere problemi nel possesso della baronia di Osilo, i cui frutti continuarono ad essere arrendati fino al 1422 a Pietro De Feno, un personaggio dell'oligarchia sassarese in passato legato al visconte di Narbona, e il cui territorio, in parte, era conteso da Serafino di Monta ñ ans, un altro catalano le cui fortune feudali si erano in quegli anni affermate. Controversa era anche la disponibilità del Goceano, che dopo la morte di Ugone III era stato concesso ai De Ligia. Il suo possesso, durante il confuso periodo precedente, era stato affidato al marchese di Oristano, che lo rivendicava come legittimo conte, e le sue rendite erano arrendate al cittadino oristanese Gantino De Zori, uomo di fiducia del marchese.
Nel Montacuto e nel Mejlogu poi il nuovo feudatario aveva da fare i conti con potenti famiglie della vecchia aristocrazia giudicale come i Tola, i Pinna e i Dettori. Egli d'altra parte era impegnato nella vasta politica mediterranea di Alfonso V e la sua presenza in Sardegna fu saltuaria in quanto le imprese del suo signore lo richiamarono spesso lontano.
Tuttavia è possibile seguire le vicende dei suoi feudi sardi con sufficiente sicurezza: fin dai primi tempi lasciò che da Cagliari seguisse gli affari connessi all'ufficio di viceré Lodovico Aragall, governatore di Cagliari e Gallura. Nel 1422 egli si trattenne nel Logudoro dove regolò il problema del Goceano, che dovette cedere al marchese di Oristano; partì successivamente per la Sardegna solo nel 1424 e dovette subito affrontare una grave controversia con il Cubello, che pretendeva di occupare Macomer ed una parte del Marghine. Lo scontro tra i due fu molto violento e minacciò di tramutarsi in guerra aperta, come era nel costume dei grandi baroni del tempo, ma fu sanato dall'intervento personale del re.
Egli amava spesso risiedere ad Ardara, centro dei suoi domini; da qui seguiva gli affari di Stato, tenendosi in contatto con l'Aragall a Cagliari, e regolava i difficili problemi connessi al controllo dei suoi vasti feudi. A partire dal 1424 in questo compito si trova affiancato dal figlio Francesco Giliberto che nello stesso anno si adoperò per chiudere una controversia con Serafino di Monta ñans per il controllo della baronia di Osilo. Al Montañans vennero cedute le ville spopolate di Urgegue, Noagia e Muselano, comprese nella baronia, per il vasto e fertile salto di Queas in territorio di Osilo con la condizione che se dette ville si fossero ripopolate, il Montañans avrebbe riconosciuto la supremazia feudale dei Centelles sulle stesse.
Questa complessa transazione fu possibile perchè alcuni mesi prima il re aveva ampliato a Bernardo l'investitura feudale concedendogli il mero e misto imperio e la giurisdizione criminale “cum gladii potestate”. Il nostro personaggio subito dopo ripartì dalla Sardegna e probabilmente non vi ritornò se non saltuariamente; l'amministrazione del vasto complesso feudale fu completamente lasciata al figlio Francesco Giliberto.
Furono anni difficili, le terre dei Centelles risentirono della crisi di produzione del grano e degli allevamenti di bestiame; i feudatari si trovavano poi in un difficile rapporto con i propri vassalli, depositari della tradizione autonomistica dell'antico giudicato. Tracce di questa difficile convivenza si possono trovare già a partire dagli atti di convocazione del Parlamento del 1421, quando furono convocati anche alcuni rappresentanti di quelle contrade; successivamente Francesco Giliberto fu costretto a venire a patti con i suoi vassalli in relazione al commercio del grano. Si creò una situazione di latente contrasto tra gli abitanti del complesso feudale ed il feudatario che, peraltro, premeva per avere maggiore autonomia nei confronti del potere reale e maggiori privilegi giurisdizionali. Il contrasto spesso latente, almeno fino all'ultimo sfortunato episodio di Leonardo Alagon, sfociava in aperta partecipazione ad azioni armate.
Tracce dell'antica autonomia però rimasero anche in seguito e sono riscontrabili nell'equilibrio tra l'azione degli ufficiali baronali e le comunità dei villaggi che conservarono il diritto di eleggere il loro Sindaco entro una terna di probi uomini scelti dall'amministratore baronale.
Oltre a Francesco Giliberto rimasero in Sardegna le sorelle Caterina, sposata con Salvatore Cubello, e Violante, sposata col sassarese Angelo Cano; Bernardo, sempre più impegnato lontano dall'isola, cessò di essere viceré nel 1430 e probabilmente morì nel 1433.
Francesco Giliberto, dopo la morte di suo padre, seguì Alfonso V nelle sue imprese lasciando la Sardegna; non partecipò alla definitiva liquidazione della contea di Monteleone, quando il castello fu preso e distrutto durante il viceregno di Giacomo di Besora. Tuttavia il favore reale non gli venne meno; nel 1437 fu nominato Governatore del Logudoro, le navi che possedeva e con le quali faceva guerra da corsa ottennero la franchigia delle prede. Nel 1438 riprese i titoli paterni di consigliere e di maresciallo ed ottenne il privilegio di poter alienare liberamente i propri feudi e di poterli trasmettere ereditariamente in via femminile o collaterale anche ab intestato. Ottenne così un'ulteriore estensione dei privilegi già concessi a suo padre ed il complesso dei suoi feudi assunse così caratteristiche simili a quelle che avevano gli altri grandi feudi sardi, in linea con le crescenti aspirazioni autonomistiche dei baroni. La morte di suo padre aveva lasciato insoluto il problema della dote delle sorelle. Il ruolo che egli aveva assunto al seguito del re lo costringeva a spese rilevanti. Dovette così trovarsi in momentanee difficoltà finanziarie per cui tra il 14 marzo ed il 14 maggio 1439 arrivò ad una complessa transazione con suo cognato Salvatore Cubello, al quale cedette il Costavals, staccato dal Mejlogu, per tremila ducati d'oro veneziani e semila lire di Cagliari, col patto di tenersi il territorio in pegno finché il Cubello non avesse pagato i tremila ducati. Gli vendette il Marghine e Macomer, antico oggetto del contendere tra le due famiglie, per ventiquattromilacinquecento lire cagliaritane; forse questo secondo contratto mascherava solo un prestito in quanto Francesco Giliberto si impegnava a garantire il passaggio di proprietà al cognato e ai suoi successori, obbligando l'intero patrimonio feudale ed una penale di ottomila lire. La necessità di contanti del nostro doveva essere forte; nel 1441 gli veniva ingiunto di pagare tremila lire al re che doveva far fronte alle spese per le sue guerre e nel 1442 vendette al cittadino sassarese Cristoforo Manno per tremila ducati un'altra considerevole parte del Mejlogu. Alcuni anni dopo le sue condizioni finanziarie appaiono più floride; nel 1447 acquistò dal nipote Michele Cano per quattromilasettecento ducati d'oro di Venezia la baronia del Coghinas e una nuova porzione del territorio di Osilo.
Il favore reale cresceva; il nostro nel 1449 fu insignito del titolo di Conte di Oliva; nel 1453, dopo la scomparsa di Niccolò Doria, ebbe l'ufficio e i privilegi di castellano di Castelgenovese consolidando al nord i suoi domini feudali. Nel 1454 fu nominato camerlengo e castellano di Sassari; oramai era all'apice delle sue fortune. Prima del 1460 sua sorella Costanza morì ed egli iniziò una lunga controversia con i Cubello per recuperare la dote, in quando dal matrimonio con Salvatore Cubello non erano nati figli. Nel 1462 il conte di Oliva ebbe il riconoscimento del franco e libero allodio per i suoi feudi sardi; il complesso feudale faticosamente conservato assumeva così le caratteristiche di un vero e proprio piccolo stato e Francesco Giliberto si poneva sullo stesso piano dei più grandi baroni dell'isola. Durante la guerra feudale tra Leonardo Alagon e i Carroz i suoi domini furono invasi, ma la sua fedeltà al re rimase salda, dopo la liquidazione dell'infelice marchese di Oristano; nel 1478 si vide restituire il Marghine e Macomer. Morì carico di gloria nel 1480, i suoi figli non vennero in Sardegna e quello che veniva chiamato lo stato d'Oliva fu governato da funzionari baronali così come altri grandi feudi sardi. Uno dei figli, il conte Serafino, ebbe l'allodiazione anche del Marghine nel 1504; egli non ebbe discendenza e la famiglia fu continuata da suo fratello Giovanni Cherubino.
La dinastia dei Trastamara, cui i Centelles erano legati, andava estinguendosi, la Sardegna non era più da tempo uno dei poli dell'impero catalano, lo stato d'Oliva nel quale il Montacuto era saldamente incorporato, interessava i suoi feudatari solo come fonte di rendita. I nomi dei suoi regidores si susseguono costanti ma la vicenda dei discendenti di Bernardo è alla conclusione; Pietro Giliberto, nipote di Giovanni Cherubino, morì pazzo nel 1569. Sua sorella Maddalena, moglie di Carlo Borgia, trasmise il titolo e lo stato d'Oliva ai suoi discendenti.

 

* Tratto da “Quaderni bolotanesi” n. 14, Anno 1988