Ricerche ed osservazioni sul feudalesimo sardo dalla dominazione aragonese

Il feudalesimo sardo in rapporto alle condizioni dell’isola

Tristi effetti del feudalesimo nell’isola;opinioni degli scrittori:
Dall’esame sommario e spesso, a causa dell’insufficienza delle fonti, unilaterale ed incompleto, degli elementi del feudo sardo, può concludersi che il feudalesimo a causa della sua azione continua ed intensa, riuscì all’isola più funesto che altrove, in quanto impedì ininterrottamente, per secoli, ogni estrinsecazione di prosperità economica e di progresso. Le condizioni geologiche della Sardegna, atte ad ostacolare i contatti fra i singoli gruppi di popolazione, la lontananza dal continente, la rapacità e la trascuratezza del conquistatore, l’alleanza sempre salda dei baroni col potere sovrano, determinarono la scarsezza e l’avvilimento della popolazione, impedendo insieme col progresso economico, quello intellettuale. Perciò il feudalesimo vi prosperò più rigoglioso che nel continente, e non poté iniziarsi alcun serio ed efficace movimento abolizionista, prima del regno di Carlo Alberto.
Non mancarono scrittori che proclamarono la mitezza del feudalesimo nell’isola. Il Ciccagliene, facendo proprio un giudizio dello storico Manno, non si perita di affermarla, deducendola dalle provvide disposizioni delle prammatiche sarde.
E’ indubbio che questa raccolta di leggi presenta un complesso di disposizioni sul diritto feudale che, per quanto incompleto e disordinato poteva costituire una forte garanzia ai diritti dei vassalli, se l’applicazione ne fosse stata curata con intento di buon governo. Vedemmo però come fossero applicate, specie nel campo tributario e giurisdizionale, in cui più erano sensibili e dannose le trasgressioni. I vassalli, posti dalla tirannia delle leggi feudali alla dipendenza assoluta del signore, non erano certamente in grado di invocare il rispetto dei loro diritti, e le garanzie sancite a loro tutela. Violati i provvedimenti sull’appello alla giurisdizione regia, inutili le disposizioni sulla nomina e sulla condotta dei ministri di giustizia delle curie baronali, imposti, contro il tassativo disposto delle leggi, dei pregoni viceregi, delle carte reali, nuovi e sempre crescenti pesi tributari, esatti quasi sempre con scandalosa frode, messe in non cale le disposizioni procedurali di qualche efficacia, praticati su vasta scala gli arrendamenti dei proventi giurisdizionali, resta a domandarsi in che consistessero le decantate garanzie contro la tirannide feudale. Come notarono il Besta e il Mondolfo, accanto alla nessuna sanzione di tali provvedimenti, è il fatto eloquente delle molteplici domande di grazia presentate dai baroni alle singole tornate dei parlamenti, per tutti gli eccessi e delitti di cui si erano resi colpevoli.
Questi fatti non furono una peculiarità della Sardegna. Anche nel continente gli abusi baronali furono più forti dei provvedimenti legislativi emanati per frenarli. Dell’elemento popolo i governi e i feudatari se ne accorsero solo per sfruttarlo ed opprimerlo. Talora esso si ribella, spezza il giogo, e si concede in cambio della secolare oppressione lo sfogo passeggero di qualche giorno di strage, pervenendo solo ad aggravare le proprie condizioni, in conseguenza di una sicura, fredda, meditata, vendetta, degli oppressori più scaltri e potenti.
In Sardegna, a queste ribellioni sanguinose, così frequenti e comuni nella storia del feudalesimo dei grandi stati, non si pervenne per le condizioni stesse dell’isola. Una popolazione povera e sparsa, per le condizioni geologiche, in gruppi tra cui non erano possibili contatti che dessero luogo a movimenti grandiosi di rivolta. Non correnti di nuove idee, non influssi di civiltà o efficacia di esempio che provocassero aspirazioni a un avvenire migliore. Povera la coltura, miserabile il commercio, uniforme e neghittosa la vita sociale. Ogni villa in preda a un tosatore particolare, intento allo sfruttamento del suo feudo, e alla conservazione dei propri privilegi.
La rivoluzione angioiana (1794-1796) fu il più serio movimento di ribellione contro la tirannide feudale che si può ricordare in Sardegna. Quest’esplosione così concorde di odio e di vendetta che percorse l’isola da un capo all’altro, e fece per poco sperare l’annientamento del feudalesimo, cadde nel nulla col volontario esilio di quel Giommaria Angioi che scontò col sacrificio di se stesso il delitto di aver vagheggiato per la patria giorni migliori. Così al feudalesimo era ancora serbato circa mezzo secolo di vita rigogliosa.

Lato benigno del feudalesimo sardo in confronto d’altri paesi; l’abolizione della servitù della gleba:
E’ però da notare che la Sardegna non è celebre per quelle efferatezze signorili che diedero triste fama al feudalesimo di altri paesi. La figura del feudatario che per capriccio o vendetta tortura, mutila o uccide il vassallo, che devasta i villaggi col ferro e col fuoco, le fiere e cruente lotte tra feudatari per ambizioni e odi particolari, così frequenti nel continente, furono fortunatamente ignote nell’isola, se non nel primo periodo feudale, su cui non è facile pronunciarsi per mancanza di documenti, certo nei secoli posteriori. La giustizia penale ebbe il carattere arbitrario della giustizia medioevale ma non ricorda quegli atti di cinica ferocia che resero altrove tristemente famose le giurisdizioni signorili.
Solo da questo lato il feudalesimo ebbe in Sardegna un certo carattere di mitezza. Nel resto nulla ha di eccezionale rispetto agli altri paesi considerati durante lo svolgimento del periodo feudale vero e proprio: non per il sistema tributario che fu scandalosamente abusivo e oppressivo, non per quello giurisdizionale, non per la sicurezza dei sudditi angariati dalla piaga del banditismo, che trovava nelle condizioni dell’isola il terreno più propizio, specie per la mancanza di qualsiasi seria organizzazione amministrativa e politica, atta a reprimerlo. Fu invece più gravoso che altrove, anche per l’inerzia del governo di fronte ai secolari privilegi acquistati dai feudatari.
Tutto ciò non può distruggere la vuota frase del Manno, inneggiante al feudalesimo aragonesi, perché rese l’isola partecipe dei destini del più potente regno del mondo, dimentico che la potenza della Spagna portava i germi della sua distruzione nel sistema di sfruttamento cui assoggettò i popoli conquistati.
Si suole attribuire ai baroni feudali l’abolizione della servitù della gleba, riferendosi a quella domanda dello stamento militare per cui fu ottenuto che i vassalli potessero a volontà trasportare il domicilio da un feudo all’altro. La causa di questa protezione non tanto consistette nell’intento di migliorare le condizioni dei sudditi, quanto nell’interesse stesso della maggioranza dei baroni, che trovava più utile accordare questa libertà. Mancando le braccia per la scarsezza della popolazione nelle loro ville, essi cercarono di attirarvele, facendosi promotori di questa innovazione. Nessun miglioramento dei vassalli dobbiamo dunque col Manno attribuire a tale domanda. Introdotto il feudalesimo col dominio aragonesi, egli dice, “non si sentì più risuonare l’odioso nome di schiavo”. Ma se i vassalli poterono liberamente mutare di padrone, non si trovarono di certo in condizioni migliori sotto il nuovo che sotto l’antico, quanto ai rapporti economici e giuridici. Forse che di molto differivano dalla condizione dei servi della gleba, questi vassalli che dovevano soddisfare ai pesi di un rovinoso sistema tributario, e che, quanto ai rapporti giurisdizionali, erano soggetti quasi interamente alla discrezione del signore?

La decadenza dell’agricoltura; l’assenteismo feudale e suoi effetti; l’incarica:
Da ciò un isterilirsi di ogni manifestazione economica, col più completo avvilimento dei soggetti. L’agricoltura fu trascuratissima, trovando la popolazione più comodo dedicarsi alla pastorizia che procurava una vita oziosa, a preferenza dell’agricoltura, la quale assai male compensava i vassalli degli sforzi fatti per far fruttare al signore la terra. La causa consisteva nello sfruttamento dei signori, concretizzato nelle prestazioni feudali, che arrestando ogni incremento di produzione, restringeva il vassallo a produrre il solo necessario agli stretti bisogni.
Si aggiungano i danni derivanti dall’assenteismo dei baroni che, proprietari di immense circoscrizioni feudali ed allodiali, risiedevano fuori dal regno e specialmente in Spagna, lasciando il governo dei feudi in mani di amministratori sollecitanti quei posti per arricchirsi con lo sfruttamento delle regioni di cui erano addetti. Buona metà dell’isola era in queste condizioni, atte a favorire il latifondismo e l’abbandono delle terre. Mentre nei primi tempi della conquista fu posto l’obbligo di risiedere nei feudi, ben presto, cessati i torbidi politici, questa clausola restò lettera morta, come tante altre contenute nei diplomi di infeudazione. Così nessun freno fu posto all’assenteismo dei feudatari.
Al gran danno derivato all’agricoltura dal concentramento, in mani di pochi, di estese circoscrizioni territoriali, si aggiungeva che i redditi dei feudi emigravano dall’isola in paese straniero e che i feudatari, mentre erano sottratti all’azione del governo locale, sollecitavano sempre crescenti privilegi ed esenzioni presso le corti in cui risiedevano. Nel 1744 troviamo un progetto per il riscatto dei feudi posseduti dai feudatari residenti in Spagna, ove il compilatore espone i gravi danni derivanti all’isola da questo stato di cose. Accenni consimili troviamo spesso nelle fonti del diritto feudale sardo.
Al regime feudale si accompagnava la pessima organizzazione amministrativa e politica. Nessuna efficace garanzia della proprietà e incolumità personale in un regime di disordine e di arbitrio. Il banditismo era nel suo miglior fiore, e i delinquenti erano spesso strumenti dei baroni stessi, che li proteggevano nonostante il tassativo disposto delle clausole di infeudazione. Indice di questa pessima organizzazione politica è l’istituto dell’incarica di cui già dicemmo, indizio indubbio della frequenza dei delitti e dell’impossibilità del potere pubblico a scoprirne gli autori, per cui le comunità erano solidalmente tenute ai danni nel caso che non denunciassero, o non si scoprissero, i delinquenti. Anzi, i baroni avevano tramutato questo istituto, sorto per uno scopo di sicurezza pubblica, sia pur male inteso e male applicato, in un tributo feudale vero e proprio da pagarsi dai singoli vassalli periodicamente, si verificassero o no delitti, e questo contro l’espresso divieto delle prammatiche. In più luoghi si accenna a tale fenomeno, e si osserva che con ciò era snaturato lo scopo della legge.

Disordine nella legislazione; il primo parlamento sardo e i successivi; loro effetti:
Il feudalesimo ebbe effetti diretti o indiretti su qualsiasi manifestazione della vita isolana, per cui non sarà inutile dare uno sguardo sommario alle condizioni civili, economiche e politiche di questa, con cui è in intima connessione.
Già notammo il disordine della legislazione derivante dalla molteplicità delle leggi improntate ai momenti in cui erano sorte e agli svariati intenti dei loro autori, scritte in idiomi disparati, sovente contraddittorie, per cui in mezzo a tante disposizioni inorganiche era difficile un’efficace tutela dei diritti dei singoli. Il diritto emanava dal re e dai Parlamenti principalmente, in via sussidiaria anche dai rappresentanti della potestà regia, i viceré. Le prammatiche, dettate da un re lontano dall’isola, non edotto o noncurante dei suoi bisogni, non potevano costituire una legislazione strettamente connessa con le esigenze della terra conquistata, a differenza dei capitoli che rappresentano il diritto propriamente locale di somma importanza per lo studio della vita sociale isolana.
I Parlamenti, unica istituzione veramente provvida di cui possiamo essere grati agli aragonesi, se non altro perché diedero qualche parte ai nazionali nel governo dell’isola, evitando che cadesse totalmente in balia dello straniero, resero la Sardegna partecipe dell’istituzione già esistente in Catalogna. Il primo, presieduto dal Re Pietro IV in Cagliari (1355), in base agli studi del Solmi, non è più da considerarsi una semplice riunione straordinaria ispirata a momentanee necessità politiche e belliche, priva interamente dei caratteri propri dei parlamenti posteriori. Solo è a dire che, convocato in circostanze e per scopi ben diversi che i successivi, date le speciali condizioni dell’isola non soggetta ancora ai conquistatori, da tali circostanze e scopi deriva la sua particolare fisionomia. Ciò nonostante ebbe luogo col concorso normale dei tre bracci o stamenti, e importantissime leggi o costituzioni vi furono votate.
Non provvedimenti amministrativi e giudiziari che tendessero al buon governo dello Stato, propri dei tempi di pace, potevano preoccupare in tali contingenze. Altre necessità urgevano. E pertanto le cinque costituzioni di questo parlamento si ispirarono completamente ai bisogni della conquista. Vi si votano la sanzione severa della pena di morte e della confiscatio bonorum ai ribelli, di cui il re dà un temibile esempio con la condanna di Gherardo di Donoratico, e alcune disposizioni sul feudo, arma potentissima di conquista e di soggezione. Rendendo generale un principio già sancito nei singoli diplomi feudali, si obbligavano i feudatari catalani e aragonesi a risiedere nel feudo sotto pena di decadenza; si disponeva che solo ai sudditi di Spagna potessero darsi i feudi pervenuti per qualunque titolo alla Corona, e si dettavano norme perché le prestazioni militari dei baroni, in uomini o in natura, fossero organizzate in modo da fornire un pronto ed efficace aiuto al sovrano. Si aggiunga l’obbligo che non potessero alienarsi beni immobili a sudditi nemici della Corona, accompagnato dalla sanzione della pena capitale.
La storia dei parlamenti sardi, che inizia col parlamento del 10 maggio 1355, si riapre, dopo lungo periodo di laboriose guerre, nel 1421, con quello che inaugura veramente l’opera esplicata da queste congreghe nell’ordinamento amministrativo e nel governo dell’Isola, in cui ebbero tanta parte, come organo principale di legislazione. In esse si discutevano le cose isolane, le riforme, i bisogni del popolo, i tributi, si chiedevano grazie e privilegi. Ma se si devono riconoscere anche dei meriti ai parlamenti sardi per aver promosso utili provvedimenti in vantaggio dell’isola, non bisogna dimenticare che essi servirono come mezzo per impetrare grazie, esenzioni e favori a vantaggio degli stamenti, specie del più potente, il militare, nelle cui mani stavano le sorti della Sardegna. L’ecclesiastico si occupava esclusivamente, dimentico del popolo, dei propri vantaggi e privilegi, il reale, che avrebbe dovuto rappresentare e tutelare i vassalli delle ville, era debolissimo di fronte agli altri, specie perché composto in massima parte di elementi soggetti alla potestà baronale.

I Viceré, le cariche pubbliche, la nobiltà feudale, il clero e i loro benefici; condizioni intellettuali dell’isola:
Di ben scarso beneficio furono all’isola i viceré nell’epoca spagnola. La distanza dalla sede del governo e la noncuranza di questo per gli amministrati, ne favorirono tanto la forza da renderli autonomi e onnipotenti. Essi non accettavano la carica, e non lasciavano la Corte che per arricchirsi e per volgere ogni azione a proprio profitto. L’Azuni cita l’esempio di una squadra di galere costruita per la repressione del contrabbando, la quale rendeva notevoli servigi all’isola. I viceré la lasciarono perire e ne vendettero i resti continuando ad esigere la tassa per la manutenzione. Durante la dominazione aragonesi solo gli spagnoli poterono occupare tale carica e nessun freno fu posto ai loro poteri, non potendosi considerare efficace l’azione dei visitatori inviati periodicamente nell’isola, la cui importanza fu più formale che sostanziale.
Gli uffici pubblici, tutti o quasi, erano occupati dagli stranieri. Le sedi vescovili, le magistrature, le più eminenti cariche amministrative civili e militari, e anche i minori impieghi erano in mani di forestieri che se ne servivano, come cespite di rendita, di null’altro solleciti. I sardi esclusi per sistema dai pubblici impieghi della loro terra, guardavano con inerzia e indifferenza tale stato di cose e quasi finivano col persuadersi che “solo nelle menti dei conquistatori risiedevano l’intelligenza, il senno, la capacità di governare e che codesti stranieri fossero uomini di diversa e più perfetta natura” (P. Tola).
La nobiltà, fin dall’inizio della conquista, si era arricchita di privilegi, profittando della facilità con cui gli spagnoli li concedevano. Già vedemmo quanti ne ottenessero i baroni feudali nel corso di questo breve studio, individualmente e collettivamente, per cui i baroni e il governo procedevano in perfetto accordo. Da una parte si viveva di abuso e di privilegio, dall’altra parte si permetteva ciò che si era interessati a mantenere. La nobiltà senza feudo era assai numerosa e viveva nell’ozio, tronfia del privilegio della nascita. Esenti dalla pena di morte, sottratti al foro ordinario e sottoposti alla giurisdizione di sette pari anche per i crimini di lesa maestà, esonerati dalle contribuzioni comuni, questi nobili gravavano specialmente sulla popolazione delle campagne, oppressa da mille tributi, senza che questa ardisse svincolarsi dalla ferrea morsa del sistema tributario, specie per la cupa minaccia della giurisdizione criminale.
Ai privilegi dei nobili si aggiungevano quelli del clero. Il clero regolare e secolare prosperò rigogliosamente nell’isola e fu potente per considerazione e ricchezze. Gli ecclesiastici erano esenti dalle gabelle comprese sotto le più svariate forme di pedaggi, contribuzioni, dazi, machizie, tributi feudali, dai quali ultimi in tutti i feudi erano immuni. Si arrivò persino a far riceve la tonsura a fanciulli appena settenni, perché tutta la famiglia fosse esente dai carichi pubblici e le rendite potessero passare come patrimonio del clero. Il popolo era tenuto a pagare le decime e a fornire le contribuzioni in danaro che nobiltà e clero dovevano versare sotto forma di donativo per i bisogni dello Stato. I gesuiti erano molto potenti, avevano in mano l’insegnamento e il privilegio di conferire i titoli scientifici.
Queste condizioni, prese insieme, non potevano certo favorire un largo sviluppo della cultura intellettuale. Il livello infatti si mantenne bassissimo non solo nelle campagne, dove è giustificato dalle misere condizioni dei vassalli delle ville, ma anche nelle città e nella capitale. L’insegnamento delle scuole si smarriva in sottigliezze scolastiche e in un vuoto pedantismo dottrinario. Fin dai primi anni del secolo XVII, non si trova traccia di pubblico insegnamento introdotto dagli aragonesi e dagli spagnoli. Durante tale periodo era al clero demandato di istruire il popolo, a quel clero che, se è da credere all’Arquer, era così ignorante e corrotto da saper appena balbettare il latino, e che era specialmente dedito a cose assai meno spirituali di quanto portasse la sua missione.
A ciò si aggiungeva la peste delle gare municipali e dei dibattiti personali in cui si esaminavano i miglio ingegni; così gli intelletti che con profitto avrebbero coltivato le scienze e le arti si perdevano in futili dispute. Vi troviamo immischiati uomini illustri quali Bonfant, Machin, Esquirro e soprattutto, l’uno contro l’altro armati, il Vidal e il Vico. Non mancarono il Dexart, il Buragna, il Quesada Pilo, di deplorare quest’altra piaga dell’isola, sorta al tempo dei regoli, fomentata dalla rivalità tra i Pisani ed i Genovesi, alimentata dagli spagnoli.

La Sardegna feudale e la dinastia sabauda; le riforme; la rivoluzione Angioiana, l’abolizione del feudalesimo:
Passata la Sardegna sotto la Casa Savoia, vennero leggi provvide che contribuirono assai al miglioramento delle condizioni economiche, politiche ed intellettuali dell’isola. Non tanto sotto il primo Re di Sardegna Vittorio Amedeo II, che distratto da altre cure non ebbe troppo tempo di occuparsi della nuova terra di cui era accresciuto il suo stato, quanto e specialmente sotto Carlo Emanuele III. Ben poco fu fatto da questi sovrani (i quali pure tanta opera utile all’isola spiegarono in altri campi) contro la piaga feudale e i privilegi signorili, per cui il regime introdotto dagli aragonesi, profondamente radicato sotto gli spagnoli, sussistette ancora quasi integro sotto la nuova dinastia. Né si poteva, è giusto considerarlo, pretendere che un governo nuovo, bisognoso di consolidarsi e per di più seriamente impegnato nella politica degli stati di terraferma in una lotta in cui era in gioco la propria conservazione, si mettesse sulla pericolosa via di intaccare quei privilegi che i baroni consideravano da secoli inalienabili e sacri.
Con Vittorio Amedeo II, si ebbe tuttavia un migliore amministrazione della giustizia, un meno difettoso andamento del governo. A Carlo Emanuele III sono dovute l’istituzione della posta, la pubblicità delle ipoteche, la milizia nazionale, l’università, i monti granatici, i tribunali di commercio, senza contare i molti e svariati provvedimenti legislativi delle carte reali emanate sotto il suo regno, che rialzarono la Sardegna d’assai. Ma il feudalesimo continuò a vivere rigoglioso, per quanto il sovrano si sforzasse di diminuire indirettamente l’influenza dei privilegi baronali.
Subentra con Vittorio Amedeo III un periodo non felice per la Sardegna. Troppo debole per districare gli intrighi dei cortigiani e dei ministri, egli, quantunque fosse animato personalmente da buone intenzioni, non impedì che essi sopraffacessero i sardi. Così gli impieghi pubblici furono in mano ai piemontesi, senza reciprocità con gli stati di terraferma. Il viceré si arrogò un’autorità esagerata, trattando con largo arbitrio gli affari e limitandosi appena a riferirne, a cose fatte, alla Segreteria di Stato.
A tanto imperversare di moti rivoluzionari, a tante correnti di idee invocanti imperiosamente nei paesi continentali riforme contro il vecchio edificio del privilegio e della tirannide signorile, fanno riscontro in Sardegna i moti del 1793-1796 culminanti nella sollevazione angioiana e le sue ripercussioni dei primi anni del secolo XIX che, se possono riguardarsi come esplosioni di odio a lungo compresso contro il regime feudale e i baroni, non furono certo espressione di una matura coscienza politica. A prescindere da una ristretta corrente di idee progressiste e liberali delineatasi in quel tempo nell’isola, i sardi, soprattutto nelle ville e nel contado, conservavano immutata la tradizionale venerazione per il monarca e per un dogmatico principio di autorità. Essi invocavano da lui, come da un padre, un alleviamento ai propri mali, né avrebbe potuto aver presa sui loro spiriti qualunque piano di ribellione contro un oppressivo sistema sociale e di governo, tanto era lontana la loro psicologia da quella dei popoli continentali. La Sardegna dava pertanto entusiastica e riverente ospitalità al sovrano sbalzato dal trono e alla famiglia reale, nell’attesa e nell’incrollabile fiducia che la causa santa della monarchia trionfasse contro il principio rivoluzionario, né in conseguenza poteva sentirsi spinta, nonostante la recente sanguinaria repressione del moto antifeudale, che aveva ridotto a un’utopia il generoso tentativo dell’Angioi, a profittare dell’evento e del momento difficile che la corona attraversava, per svincolarsi dalla secolare stretta del regime feudale.
Pure il movimento degli anni 1793-1796 aveva edotto il principe dell’imperiosa necessità di riforme da attuarsi con sommo accorgimento in tempi così fortunosi per la monarchia, dato che i feudatari, contro cui essa avrebbe dovuto agire, si erano tanto premurosi quanto vigili stretti attorno a lui, pronti ad osteggiarlo se avesse minacciato di ledere i loro interessi.
Di ben limitato effetto erano state fino allora le non poche disposizioni delle prammatiche e dei pregoni viceregi proscriventi con astratte e altisonante formule gli abusi baronali tributari e giurisdizionali. Quelle emanate nel 1799 e nei primi anni del 1800 contengono qualche rimedio concreto, ma per la debolezza della monarchia e la strapotenza dei feudatari, lasciarono le cose pressoché immutate, nonostante i torbidi e le violenze provocati in quegli anni di disagi e di carestie, dalla prepotenza baronale nell’esazione dei tributi. Contro gli abusi giurisdizionali è specialmente da ricordare la creazione delle Prefetture del 4 maggio 1807: “Uno dei grandi difetti della circoscrizione giudiziaria, scrive il Martini, era ab antico il difetto di autorità intermedie tra i magistrati di Cagliari e di Sassari ed i giudici inferiori creati dal re e dai baroni…i giudici ordinari, abbandonati quasi a loro stessi, regolavano le cose a proprio talento…potevano adulterare e sopprimere le prove dei reati…avevano ogni comodo per coordinare i fatti all’impulso delle proprie passioni…intimidendoli potevano ritrarre i popolani dalle querele contro le loro male opere e renderle innocue col favore dei baroni e dei loro agenti”.
Con la riforma fu diviso il territorio dell’isola in 15 Prefetture e ognuna costituì un centro intermedio di autorità giudiziaria e amministrativa. Ai Prefetti furono date pertanto attribuzioni di giudici di prima istanza nelle città, ville e capoluoghi di Provincia e di appello per tutta la provincia, salva la competenza del Vicario di Cagliari.
Fu introdotto il sindacato, demandato per ogni triennio a due magistrati sulle opere dei giusdicenti minori e dei Prefetti e fu dato a questi ultimi sui giusdicenti che da loro dipendevano. Il provvedimento chiude la serie delle poche e timide riforme escogitate contro l’immunità tributaria e giurisdizionale dei signori, le quali furono di valore più formale che sostanziale, dacché sovrani e governi si ispirarono alla reazione durante tutto il triste periodo che precede la riforma feliciana. Carlo Felice, con la codificazione del 1827, null’altro fece contro gli abusi baronali che ribadire precedenti disposizioni, e la scomparsa del regime feudale doveva attendere il regno del suo successore.
Era tanto inveterata la mala pianta feudale che non si poté procedere con in altri paesi, ad un’abolizione subita e radicale. Fu necessario seguire vie tortuose, vincere ostacoli anche di natura internazionale provenienti dalla potente resistenza signorile. Perciò l’abolizione del feudalesimo non si manifestò in Sardegna come solenne vittoria dei diritti del popolo, ma ebbe carattere contrattuale.
Nessun bene portò pertanto il feudalesimo alla Sardegna in contrapposto ai gravissimi mali. Esso fu la causa fondamentale dell’immiserimento dell’isola, le cui condizioni speciali lo resero più arbitrario, duraturo, oppressivo che altrove per modo che i funesti effetti si fecero sentire, direttamente o indirettamente, in ogni manifestazione della vita sociale e sono sensibili anche oggi. E già ai suoi tempi ben ne ebbe la percezione netta il Fara, che considerando le tristi, immeritate condizioni dei sardi, e il miserrimo stato della classe agricola, scrisse queste parole quasi profetiche: “et si eorum (dei sardi) labores vili et iniusta annali frugum licitatione non depascerentur in dies et qui vassalli dicuntur seu totius vexati a baronibus inexplebili siti et inexausta avarizia non expilarentur…Sardinia ipsa in facunditate nemini cederet”.
Gli arbitri ed i disordini del feudalesimo in Sardegna non furono certo una peculiarità dell’Isola. Dappertutto il regime feudale fu sinonimo di arbitrio e certo più nella prima epoca feudale, in cui i feudatari furono tanti regoli nei loro feudi, che nella posteriore, quando l’autorità sovrana riuscì a fiaccarne in gran parte l’onnipotenza. Soltanto è da dire che, mentre altrove, appena mutati i tempi e le condizioni, i soggetti furono in grado di opporre potenti ostacoli all’onnipotenza feudale, mettendosi in lotta aperta con i signori, in Sardegna il popolo tenne per secoli un contegno passivo e avvilito e se il potere regio non si fosse adoperato con tutti i mezzi si sarebbe ancora ritardata la provvida abolizione.