Acquisizione e consolidamento del patrimonio feudale attraverso logiche familiari: gli Amat
di Marina Valdes
Il primo giorno di luglio del 1789 vengono celebrate a Cagliari le nozze fra Giovanni Amat Manca ed Eusebia Amat Vico. Lo sposo, ormai trentacinquenne, è il marchese di San Filippo, ma è destinato a diventare altresì, alla morte della madre Maddalena Manca Masones, marchese di Albis, barone (1) di Ussana, barone di Bonvehì, barone di Montiferru, signore di Austis, Teti, Tiana e signore del “vinteno” e del “cabesaje” (2) di Alghero. La sposa non ha ancora 17 anni e la morte del suo unico fratello maschio, avvenuta nel gennaio, l’ha destinata ad ereditare dal padre, Giuseppe Amat Malliano, la baronia di Sorso e Sennori e la signoria di Olmeto; dalla madre, Speranza Vico Zapata, il marchesato di Soleminis e la signoria della “carra” di Sassari (3).
L’endogamia, tradizionalmente praticata con lo scopo di assicurare alla chiusa casta dei feudatari sardi la permanenza dei possessi feudali, già istituzionalmente indivisibili per effetto del maggiorascato, trova in questo avvenimento la più raffinata espressione: il progetto di accorpamento feudale, evidentemente sotteso a questa unione matrimoniale, si realizzerà infatti nella persona del loro primogenito Vincenzo Anastasio (4) che pure riunirà in se stesso due dei tre rami della casata, quello dei marchesi di S. Filippo e quello dei Baroni di Sorso.
Vincenzo Anastasio emerge quindi come figura emblematica, quasi il compendio di quella sagace politica matrimoniale che ha permesso alla famiglia di accrescere, di secolo in secolo, i propri possedimenti feudali per consegnarli, infine, al suo ultimo rappresentante. Né pare casuale il matrimonio di questi, avvenuto nel 1811, con Emanuela Amat Manca, sorella di quel marchese di Villarios che rappresenta il ramo principale della casata stessa: la possibilità di accentrare i tre rami della famiglia, e con essi tutti i possessi feudali, non si poté di fatto realizzare e, del resto, l’istituto feudale aveva ormai i giorni contati.
La storia di questa famiglia (5) ha origini antiche che riportano al principato di Catalogna e si fa risalire al capostipite Bonucio Amat, vissuto nel X secolo. I suoi discendenti avrebbero affiancato i conti di Barcellona, poi re d’Aragona, nelle guerre contro i mori: per i loro meriti in tali imprese sarebbero stati ricompensati, già all’inizio dell’XI secolo, col feudo di Castellbell. Successivamente Galcerando e Pietro di Castellbell avrebbero partecipato alla conquista della Sardegna, facendo poi ritorno in patria. All’inizio del Quattrocento un Ramon Amat fu consigliere di Barcellona ed ambasciatore presso il Re di Francia; sposò Maria Aymerich dei marchesi di San Vicente e ne ebbe due figli, Pietro e Giovanni. Il primogenito, sposato con Isabella di Terrè, fu padre di Giacomo. Furono proprio Giovanni Amat Aymerich e suo nipote Giacomo Amat Terrè a lasciare la Catalogna per passare in Sardegna, separandosi definitivamente dal ceppo catalano degli Amat, che continuò a prosperare sul feudo di Castellbell, eretto in marchesato all’inizio del Settecento, e dal cui seno uscirà Manuel Amat Junyent che per 10 anni, dal 1761, sarà viceré del Perù.
Giovanni Amat Aymerich si stabilisce dunque in Alghero insieme a suo nipote: entrambi accomunati dal rango di cadetti, devono guadagnarsi quegli onori che spettano di diritto ai loro fratelli primogeniti. L’appartenenza ad una delle più illustri famiglie di Catalogna appiana il percorso e, mentre lo zio, nel 1506, è governatore e riformatore del capo di Sassari e Logudoro, Giacomo Amat Terrè nel 1507 è chiamato da Carlo V, seppure temporaneamente, a sostituire il viceré Desay (6).
Di Giovanni Amat Aymerich si perdono le tracce: probabilmente anziano e scapolo, morì di lì a poco senza lasciare discendenza.
Giacomo Amat Terrè, invece, pone salde radici nell’Isola e, dopo aver sostituito il viceré Dusay, ottiene l’incarico di ricevitore del Riservato, cioè delle rendite del Marchesato di Oristano. Rimasto vedovo di Angela Zatrilla e morto anche suo cognato Ramon Zatrilla, signore dell’incontrada del Montiferro e del Gerrei, ne sposa la vedova Isabella de Sena Piccolomini da cui nasce, nel 1521, il loro unico figlio, Pietro. Rimasto presto orfano di padre (Giacomo morì nel 1524), Pietro vive in Alghero con sua madre ed i suoi due fratelli uterini, Gerardo e Salvatore Zatrilla, che rivestono nella vita di Pietro un’importanza eminente. Li troviamo infatti consentire al matrimonio di Pietro con la sassarese Brianda Cariga Manca, che porta una dote di 4.000 lire, e tutti insieme accomunati nel privilegio di Nobiltà concesso da Carlo V nel 1547 (7).
Pietro si sarebbe distinto al servizio di Carlo V in Germania e nella difesa di Alghero contro Francesi e Turchi (8). Anche suo figlio si sarebbe distinto nella difesa di Alghero, essendo incaricato delle opere di fortificazione della città nel momento in cui, ripresa la Goletta da parte dei Turchi (1574), più imminenti parevano i pericoli di un’invasione. Preso prigioniero dai turchi sbarcati a Porto Conte al comando del moro Attaraix nel 1585, sarebbe stato riscattato per il prezzo di 5.000 ducati (9). Da Giovanni, sposato con Eulalia de Ferrera che portò in dote 10.000 lire e la scrivania della vicaria di Alghero (10), nasce Francesco, che, avendo pur egli provveduto alle fortificazioni di Alghero, sarebbe stato ricompensato col feudo, col titolo di conte, di Villanova del Rio, ovvero Villarios (11).
All’inizio del Seicento si apre dunque, con Francesco Amat de Ferrera, un nuovo e più importante capitolo della storia della famiglia. L’investitura feudale, al di là delle rendite che essa possa assicurare, si rivela infatti la condizione essenziale per nuove strategie matrimoniali che, costrette fino ad allora, nell’ambito delle pur distinte famiglie degli ufficiali regi, potranno d’ora in poi estendersi all’ambito, ben più importante, delle famiglie feudali, permettendo così l’acquisizione, per via ereditaria, di un cospicuo numero di feudi e titoli.
Il cumulo dei feudi, d’altronde, non si deve attribuire, o non solo, alla insaziabile smania di ricchezza dei feudatari, ma è funzionale ad assicurare alla famiglia durevoli condizioni di benessere. Se è vero infatti che l’istituto maggiorascale assicura l’unità del feudo in capo ad un unico erede, è altrettanto vero che i frutti del feudo competono, in mancanza di beni liberi, anche ai figli cadetti ed alle figlie cui spetta, sia che si sposino, sia che scelgano il convento, una dote adeguata (12).
E’ quindi evidente che, data la numerosa prole delle famiglie feudali e, per contro, le scarse rendite dei feudi, condizionate da cattivi sistemi di coltivazione e di allevamento, un unico feudo non potesse essere sufficiente a garantire il benessere dei discendenti nell’avvicendarsi delle generazioni. Ciò vale soprattutto per i feudi di piccola e media ampiezza, con rendite proporzionali a tali dimensioni, nel cui ambito, di fatto, si sviluppa la storia feudale degli Amat, lontana dai grandi feudi degli inarrivabili feudatari spagnoli residenti nella madrepatria (13).
Nel 1646 dunque, il figlio del conte Francesco, Giovanni Battista Amat Font, sfruttando il momento favorevole alle investiture feudali (14), ottiene che la contea di Villarios venga eretta in marchesato, acquisendo così il titolo marchionale (15). Giovanni Battista si sposa per tre volte: la prima con Benedetta Busquet de Roma, che porta una dote di 25.000 lire (16), la terza, nel 1653, con Maddalena de Liperi Castelvì, vedova anch’essa, e signora dell’incontrada di Romangia o, secondo l’appellativo più usato, barona di Sorso. La famiglia si scinde in questo modo nei due rami di Villarios, che continua con Francesco Amat Busquet, e di Sorso, che inizia con Pietro Amat de Liperi.
L’acquisizione del feudo di Sorso avviene non senza difficoltà. Infatti Maddalena de Liperi ne è sì la titolare, ma le rendite si trovano sequestrate a favore di sua cognata Gabriella Manca Zonza, vedova del fu Barone di Sorso Giuseppe de Liperi, che deve recuperare dai frutti del feudo il valore della sua dote (17). Il feudo di Romangia deve essere pertanto riscattato ed il suo prezzo è calcolato in 20.000 lire. Maddalena de Liperi, nuovamente vedova, ricorre ancora una volta all’arma del contratto matrimoniale e, nel 1607, stipula con Ignazio Petreto, signore del feudo di Olmeto, i capitoli nuziali tra i rispettivi figli, Pietro di nove anni, e la tredicenne Vittoria Petreto de Sena. Ignazio Petreto si impegna a pagare per intero la somma per il riscatto del feudo (che gli costerà infine oltre 28.000 lire) e pone come condizione l’essere egli stesso nominato a vita reggitore e amministratore dell’incontrada di Romangia e procuratore speciale e generale della barona la quale, dal canto suo, cede a Pietro il feudo con tutti i diritti connessi (18). Il feudo di Romangia, che era stato di Rosa Gambella, intorno a cui si erano svolti i sanguinosi intrighi delle famiglie sassaresi dei Gambella e dei Marongio, e che aveva attirato le attenzioni dello stesso Viceré di Sardegna Ximene Perez Scrivà de’ Romani (19) entra dunque nella casa Amat grazie al matrimonio di Pietro con Vittoria Petreto, da cui i discendenti trarranno pure il titolo di Signori di Olmeto.
Col matrimonio, celebrato nel 1674, Pietro si trasferisce da Alghero a Sassari, dove pure vivranno i suoi discendenti (20) fino alla metà del Settecento quando, realizzando una nuova espansione feudale, Giuseppe Amat Malliano sposerà Speranza Vico Zapata, già vedova di Gabriele Nin del Castello, marchesa di Soleminis e signora della “carra” di Sassari, ponendo definitivamente la propria residenza a Cagliari.
Analoga la sorte del ramo Villarios che pure alla metà del Seicento trasloca da Alghero a Sassari in concomitanza col matrimonio di Francesco Amat Busquet con Mariangela Manca Salvagnolo. La sposa appartiene ad una delle più illustri famiglie della Sardegna e, se non feudi, porta una cospicua dote di beni mobili e immobili: denaro, pecore e vacche, 8 case terrene e 3 palazzi in Sassari, orti irrigui, tanche, censi, vestiti, arredi, gioielli; la nonna materna le ha costituito una dote di 8.000 lire, le zie paterne ne aggiungono altre 6.000. Non ci si allontana troppo dal vero calcolando in circa 50.000 lire la dote di Mariangela Manca, dei cui frutti, come è espressamente precisato nei capitoli matrimoniali, potrà godere largamente il marito, restando il patrimonio ai figli (21).
Davanti a tanta magnificenza, il padre dello sposo fa del suo meglio, concedendo a Francesco di fregiarsi del titolo di marchese di Lunafras ed i frutti di questo feudo, acquistato nel 1639 (22), calcolati in 400 scudi all’anno, oltrechè alcuni immobili in Alghero (un orto con giardino ed una casa), quadri e cristalleria.
L’erede di tanto patrimonio, Gavino Amat Manca, accresce ulteriormente i possessi feudali del ramo Villarios sposando Caterina Tola manca, contessa di Bonorva e Signora di Pozzomaggiore. Caterina Tola porta una dote del valore di 18.000 lire, comprendente denaro, case, più di 1.500 pecore, gioielli, tra cui orecchini d’oro e perle, un anello d’oro con 11 diamanti e uno smeraldo, 72 bottoni d’oro e smalto; ancora, arredi per la casa, quali un letto dorato, una cassa, un forziere, diverse pezze di damasco e biancheria; nel suo corredo personale compaiono, tra l’altro, un vestito di raso bianco con ricami di fiori d’oro composto da gonna e farsetto e un analogo vestito di raso verde. Anche Caterina Tola è vedova ed aggiunge alla propria dote un legato di 500 scudi lasciatole dal sui primo marito Francesco Sanjust (23). Il primo figlio di Gavino e Caterina, Antonio Amat Tola, sarà dunque marchese di Villarios, signore di Lunafras, conte di Bonorva e signore di Pozzomaggiore, tutti titoli di cui si fregeranno i discendenti del ramo, che si estinguerà infine, con Vittorio Amat Sanjust, nel corso dell’Ottocento (24).
Dal ramo Villarios gemma nel frattempo il ramo dei marchesi di S. Filippo, in conseguenza del matrimonio del secondogenito di Gavino Amat e Caterina Tola, Francesco, con Giuseppa Bacallar Cervellon, figlia ed erede di Vincenzo Bacallar Sanna. Per la sua instancabile opera a favore del re di Spagna e, in particolare, nel recupero della Sardegna dall’Arciduca d’Austria, ha ricevuto da Filippo V, quale massimo riconoscimento, il titolo di marchese col predicato di S. Filippo, a memoria del suo nome e della sua riconoscenza e il titolo di visconte di Fuente Hermosa (25).
Essendo ambasciatore del Re di Spagna nei Paesi Bassi, Vincenzo Bacallar muore nel 1726 a L’Aja, dove pure ha battezzato nell’aprile dello stesso anno il nipote Vincenzo Amat Bacallar (26). L’eredità da lui lasciata è proporzionale all’ampiezza della sua fama; in parte viene venduta in loco (argenteria, cavalli, libri), in parte va al marchese, maritali nomine, Francesco Amat, la cui casa sassarese si arricchisce dei preziosi arredi provenienti dall’Aja.
La rappresentazione della casa di un gentiluomo sardo-iberico è tutta nell’inventario dei beni di Vincenzo Bacallar: mobili di ogni tipo, canapè, poltrone, sedie rivestite di damasco e taffettà, tende e cortine di seta in ogni camera, quadri di soggetto mitologico e sacro, ritratti diversi. Delle 56 voci relative alla quadreria del Marchese di San Filippo, Francesco Amat tiene 6 ritratti della casa reale di Spagna, un quadro di San Geronimo, un quadro raffigurante San Filippo di Venezia e ancora 6 quadri “di seta con guarnizioni di ebano”; fra i gioielli un “retrato” di diamanti del duca di Parma del valore di 1.000 fiorini, 2 orologi d’argento ed uno per il buffet; una gran quantità di libri e giochi diversi: un “birebis”, una dama, “tablas reales” di ebano. Non mancano le curiosità: un microscopio ed un cannocchiale, diverse pistole e 2 carabine, nonché teiere e tazze da tè di cui non si ha notizia in inventari coevi sardi (27).
Ma all’altisonante titolo di Marchese di San Filippo non è connessa alcuna investitura feudale. La lacuna è presto sanata: nel 1753 Vincenzo Amat Bacallar sposa Maddalena Manca Masones che porta una dote di 50.000 lire (28) ed erediterà, seppure 35 anni dopo, il marchesato di Albis, la baronia di Ussana, la baronia di Bonvehì, la baronia di Montiferru, la signoria di Austis, Teti e Tiana e la signoria del “vinteno” di Alghero, destinati tutti a suo figlio Giovanni Amat Manca (29) e, in definitiva, a suo nipote Vincenzo Anastasio Amat Amat, con cui giunge alla sua fase conclusiva la storia feudale dei marchesi di San Filippo e dei baroni di Sorso.
La storia familiare, così ricostruita, si manifesta nelle sue grandi linee come una vicenda complessiva di ascesa, da posizioni eminenti già in partenza, verso traguardi più altri, raggiunti con la tenacia e la perseveranza che accomunano, sorprendentemente, le diverse generazioni e i diversi rami della famiglia. Il matrimonio, come si è sottolineato più volte, costituisce il mezzo essenziale di tale ascesa, tant’è che la storia degli Amat, per quanto illustrata da figure maschili di primissimo piano, può esser letta, nell’aspetto feudale, come una storia sequenziale dominata dalla presenza femminile.
E’ inutile sottolineare che si tratta di donne non “comuni”, donne che, pur con storie personali indubbiamente diverse, sono tutte accomunate dall’essere domine, signore di feudi e di vasti patrimoni, pienamente capaci di amministrare in prima persona famiglia e feudi, servi e vassalli, e, in pari tempo, accomunate ai loro mariti dal rango, dalla cultura e dall’obbiettivo di conservare e incrementare potere e ricchezze.
Tale parità di condizione, determinata da pari effettive capacità di perseguire il fine comune, si manifesta soprattutto nella sfera delle relazioni sociali in cui le donne appaiono incontrastate dominatrici. Poco amanti della casa e dei bambini, affidati ad un stuolo di servitù domestica e di balie, le donne viaggiano, anche sole, e sole ricevono nel pomeriggio le amiche per gli abituali “rinfreschi”. Amano i vestiti, i gioielli e le pettinature alla moda; sanno non solo ricamare, ma anche dipingere, suonare, ballare e cantare, cosa che fanno con grande successo nelle feste destinate anche agli uomini, nei cui confronti mostrano comportamenti tanto spontanei da meravigliare i viaggiatori non particolarmente edotti della libertà delle dame sarde. Uno di questi, l’inglese David Sutherland, resterà letteralmente ammaliato dalla bellezza e dallo spirito della marchesa di Villarios Francesca Manca Aymerich, immortalando in una pagina del suo diario: “Villarias catturò il cuore di tutti noi. Io spesso avevo cercato di formarmi un’idea di Eva nel suo stato di innocenza, ma mai c’ero riuscito, finchè io non vidi questa affascinante marchesa. Ella…è la natura stessa nella sua perfezione” (30).
La presenza femminile trova ovvii limiti nella sola sfera politica esterna. Le riunioni dello stamento militare, le consorterie politiche, gli incarichi di corte, restano pur sempre appannaggio degli uomini, per quanto la grande politica sembri esulare dagli interessi degli esponenti della famiglia Amat nelle diverse generazioni. Così come non sembrano coinvolti nei fatti legati agli omicidi Laconi-Camarassa, nello stesso modo non si espongono in prima persona nella lotta fra carlisti e filippisti; solo alcuni elementi indiretti, come il matrimonio di Francesco con Giuseppa Bacallar, sono un valido indizio delle posizioni conservatrici della famiglia a tutela dello status quo ante.
L’interesse degli Amat è, più che alla politica, maggiormente rivolto alla cura dei rapporti sociali. Il trasferimento dei tre rami della famiglia da Sassari a Cagliari nella seconda metà del Settecento potrebbe intendersi nel senso di una tendenza all’allargamento ed all’arricchimento delle relazioni sociali in concomitanza col maggiore lustro acquisito dalla famiglia e, soprattutto, col maggior coinvolgimento, almeno formale, dell’aristocrazia isolana nel consenso alla politica della monarchia sabauda rappresentata dal viceré. In tale prospettiva si accettano i lunghi e costosissimi servizi presso la corte torinese (31), né ci si sottrae all’onore di ospitare in casa la famiglia reale, fortunosamente giunta a Cagliari nel tardo inverno del 1799 (32).
Resta fermo, comunque, che l’interesse precipuo dei feudatari all’amministrazione dei beni aviti, come mostrerà la dedizione totale di Vincenzo Anastasio Amat Amat alla riorganizzazione delle sue proprietà, per cui pure rinuncerà all’incarico di senatore conferitogli da Carlo Alberto nel 1848.
Liberi dagli oneri gravosi ricadenti sui primogeniti, i cadetti potrebbero, meglio di questi, esprimere le loro potenzialità. I doveri del rango li costringono a due uniche possibilità di scelta: la carriera militare e la missione sacerdotale in cui, infatti, si manifesta la lunga tradizione della famiglia che, nel corso dell’Ottocento, vede insigniti due dei suoi esponenti, giunti ai vertici della loro carriera militare, del Collare della SS. Annunziata (33) ed uno ammantato della porpora cardinalizia (34).
Ma la marchesa di Villarios, Giovanni e Luigi Amat Malliano, il cardinale Luigi Amat e, soprattutto, Vincenzo Anastasio Amat Amat sono, nelle rispettive sfere di azione, gli ultimi, seppure più illustri, protagonisti di quel mondo feudale destinato a scomparire definitivamente.
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