Gli inizi del Dominio Sabaudo in Sardegna

 

In esecuzione delle lettere convocatorie spedite dal barone di S. Remy nel 9 agosto 1720, la sera del 2 settembre successivo convenivano nella metropolitana di Cagliari le principali autorità e rappresentanze dell’isola per la solenne cerimonia del giuramento al nuovo monarca sabaudo (1). L’Arcivescovo di Cagliari (1bis), il Marchese d’Albis (2), il giurato Capo della città, le prime voci degli stamenti, i membri presenti dei medesimi, i sindaci delle altre città regie, i sindaci, sottosindaci e delegati dei vassalli reali e baronali (3) ed i più alti funzionari dell’isola, fatta riverenza uno dopo l’altro al Viceré e genuflessi davanti ai Vangeli, si dichiaravano buenos fieles yleales vassallos de coraçon pensamientos y hechos di S.M. Vittorio Amedeo II loro naturale Re e Signore.
Nel breve giro di vent’anni era la terza volta che, con le stesse altisonanti formule consacrate ormai dall’uso, i sardi di tutta l’isola erano solennemente chiamati a dare il loro tributo di fede a tre sovrani diversi ed a riceverne in cambio dal Viceré l’impegno solenne che le loro leggi e consuetudini ed i loro privilegi sarebbero stati rispettati (4).
Questa cerimonia, che tanto significato doveva assumere in seguito, non poteva quindi essere in quel momento se non una vuota espressione di forma sia pur rivestita da un veramente suggestivo apparato di grandiosità. Né le si poteva chiedere altro. Da un lato lo scontento di un magro cambio imposto dal più forte e la segreta speranza nutrita per qualche anno di poter ottenere in luogo della Sardegna vantaggiosi domini continentali; dall’altro il ben giustificato scetticismo radicato ormai nell’anima sarda in questo succedersi turbinoso di domini e monarchi. La Sardegna, ove lo splendore raggiunto dalla penisola iberica aveva pure avuto la sua eco per alcune sagge provvidenze di Filippo II, doveva ben presto precipitare con la rapida decadenza della Spagna, sotto i suoi successori (5).
Tale decadenza, di cui era chiaro indice nella madre patria una finanza dissestata, una nobiltà povera sollecita, per poter vivere, di impieghi e di appannaggi, una borghesia smunta di oppressivi balzelli, aveva la sua triste ripercussione nella Sardegna aggravata, in concomitanza, da una sequela di pestilenze, carestie e scarsi raccolti, calamità che, pur non imputabili ai governi, non erano certo opportunamente raddolcite dalle provvidenze governative. Al contrario, proprio a tal periodo corrisponde quello delle maggiori imposizioni, dei continui prelievi di moneta; degli arrendamenti e delle alienazioni dei beni del fisco; delle concessioni nobiliari a scopo fiscale ed infine, esaurite tutte le risorse, dei grossi prestiti contratti (6), in ampia misura su privati.
Come portato dalla guerra di successione si erano aggiunte a tali disgraziate condizioni economiche le lotte politiche che avevano acutizzato quei dissidi di parte di cui è già chiaro indice l’episodio del parlamento 1668. Essa fornì l’esca a generalizzare, dandole nuovo contenuto, quella profonda scissione facente capo a ristretti gruppi di magnati isolani, provocata specialmente dal malcontento per l’antica questione degli impieghi.
Quanto gravi fossero stati i rivolgimenti in queste continue lotte fra i partiti spagnolo e austriaco è confermato anche da un importante documento del R. Archivio di Torino (7). Ai seguaci del partito soccombente, col ritorno degli spagnoli, erano state bruciate le case e sequestrati i beni e molte famiglie dalle più cospicui alle più modeste avevano dovuto battere la via dell’esilio. Molti avevano ottenuto impieghi dall’Imperatore a Vienna, altri al momento del trapasso dell’isola a Casa Savoia si trovavano in Corsica, a Torino o in Lombardia desiderosi del ritorno e di un onorevole collocamento in Sardegna. Tra i nobili più perseguitati e danneggiati dal partito spagnolo si annoverano, oltre ai Marchesi della Guardia e di Villasor, principali fautori dell’Austria, Don Francesco Pes di Villamarina di Tempio, Don Giovanni Valentino conte di S. Martino, Don Gaspare Muxica e Don Gavino Deliperi cavalieri sassaresi. Si ricordano ancora Don Maurizio Escardaccio che, sacrificati i suoi beni per l’Imperatore, era stato fatto cavaliere a Vienna; Don Diego Santuccio, sacerdote fuggito in Corsica, Don Giaime Riccio di Tempio già segnalatosi nella 1° e 2° invasione di Terranova, pur residente in Corsica; Don Stefano Masones e i fratelli conti Piccolomini cavalieri di Alghero, con moltissimi altri sia della nobiltà che dell’alta borghesia (8).
Il partito antagonista, fautore della Spagna, faceva capo al Marchese di S. Filippo. Vi appartenevano i Conti di Montalvo, del Castiglio di S. Giorgio, di S. Lorenzo, il Marchese di Soleminis, il defunto arcivescovo di Oristano, il Vescovo di Ales vivente e i canonici Escarsones.
In tale tristissima condizione di cose l’abilità politica del nuovo sovrano si rivelò come sempre pari alla situazione e ne è prova il suo primo atto di governo nell’isola: la concessione del più ampio indulto per qualunque delitto sia di politiche opinioni, o di qualsivoglia altra natura.
Né si può ragionevolmente pretendere che Vittorio Amedeo intraprendesse dal primo momento, con la rapidità d’azione che gli era propria, un vasto programma di rinnovamento isolano.
Dagli scrittori che han giustamente rilevato il continuo ritorno del motivo predominante nelle istruzioni di non innovare nulla, di rispettare integralmente le usanze, le consuetudini e le manifestazioni spagnole compresa la lingua, non è stata messa in sufficiente rilievo una importantissima considerazione. Che questo immutato e immutabile rispetto delle secolari istituzioni e costumi aveva in realtà una portata tutta esteriore e palliava abilmente i primi e decisi colpi di scalpello per l’inizio di un radicale rinnovamento.
Bastano per convincersene le prime battute delle istruzioni al S.Remy, emanate quando ancora il sovrano non aveva preso possesso del nuovo regno: “Nonostante il loro ampio contenuto (delle stesse patenti) non possiate senza espresso ordine nostro convocare il Parlamento, né fare grazia alcuna, né dare salvacondotti per delitti esigenti pena di morte, né dare commissioni per armare in corso tuttoché per sostenere il decoro dell’impiego et a fine che siate ugualmente considerato dal pubblico come li Viceré stabiliti dalla Spagna, non abbiamo inserite in esse patenti le predette riserve”.
Si rivela in ciò evidente tutta la politica accentratrice del sovrano fatta di sollecitudine, di vigilanza, di pronta repressione di ogni abuso; il rispetto delle leggi e di istituti secolari per misura di tatto politico purché essi non fossero mezzo per perpetrare disordini e scalzare l’autorità dello Stato.
Fu quindi prima cura del sovrano di assicurare una solida gerarchia fedele, solerte e capace di funzionari, adattando e trasformando, almeno nello spirito alcune precedenti istituzioni. Era l’innovazione più urgente e relativamente più facile rispetto alle altre che egli si proponeva di fare con prudenza e maturo consiglio. Così, prese informazioni sulle tendenze e sul contegno dei magistrati, si dovevano eliminarsi o non nominarsi ad impieghi se non persone di provata fede. Dovevano senz’altro cessare le continue controversie di giurisdizione tra Viceré e Intendente, strascico di secolari dissensi tra quello ed il soppresso Procuratore Reale, tra questo e la Reale Udienza. L’Intendente, con sostanziale modifica delle istituzioni spagnole, restava subordinato al Viceré rappresentante del Sovrano, tranne che in alcune materie patrimoniali strettamente specificate; entrambi, supremi funzionari, erano tenuti a collaborare con tutto zelo e buona fede al servizio del Re che non era disposto più per l’avvenire a prestare orecchio a controversie della specie. E perché questa dipendenza venisse meglio affermata, si abolì l’antica e costante usanza che il Viceré prestasse giuramento nelle mani del Procuratore Reale rappresentato ora dall’Intendente.
E così l’isola, dopo il caotico disordine degli ultimi tempi, ebbe una rapida trasformazione dei pubblici servizi diretti ora da funzionari metodici operosi, solleciti, senza riguardo a sacrifici del loro dovere e del bene pubblico, alieni di venir meno anche nelle più modeste apparenze a quella linea di dignità e decoro imposta dalla carica.
Il S.Remy, seppure persona di non vasta cultura e di non grande abilità politica ma dotato di energia e solerzia, non si risparmiava nei difficili passi della sua nuova carica e, vigilando assiduamente sulla condotta dei dipendenti, secondo le direttive sovrane, provvedeva a che i magistrati della R. Ud. prima negligenti dei doveri d’ufficio, vi attendessero serenamente e con solerzia notando e biasimando anche le loro minime infrazioni. Si provvide inoltre a che gli impieghi prima dati per due o tre vite non eccedessero la durata della vita del titolare, con altra notevole deroga alle consuetudini spagnole.
Per assicurare senza scosse la continuità del governo, il sovrano provvide con preventive scelte di fiducia all’interim nel caso di morte del Viceré per R. Biglietto chiuso indirizzato al Reggente la R.Cancelleria da aprirsi qualora si verificasse tale eventualità (9). Assai più difficile e complessa si presentava la condotta politica da seguire rispetto alle diverse classi sociali, ai nobili, al clero, al popolo.
Né il sovrano né il S.Remy si facevano illusioni sulla difficoltà di formare, fra le due tendenze opposte che dividevano i magnati sardi, un partito devoto e fedele alla nuova dinastia.
Il Viceré, non troppo conscio ancora delle vere qualità dei sardi, li rappresentava al sovrano con colori non lusinghieri e con manifesto spirito di diffidenza. Ed in verità non del tutto a torto (10). Il banditismo era in non poche zone innestato con le lotte di parte e non pochi laici ed ecclesiastici si facevano per fini particolari sostenitori di malviventi mentre altezzosi feudatari pretendevano di continuare nelle loro terre le consuete prepotenze. Perciò la delinquenza era ampiamente diffusa e le lettere dirette a Torino, pur fatta giustizia di qualche esagerazione, riboccano al riguardo di rapporti veramente sconfortanti, né i giudici delle ville collaboravano con loro, per noncuranza o paura, a fronteggiarla e combatterla. Alcune incontrade erano soprattutto nel Regno difficili a governare quali il contado del Goceano, il Marchesato di Orani, l’Anglona, il Monteacuto e la Gallura.
In questo campo fu tosto seguita dal governo una linea di massima energia e di intolleranza ad ogni abuso. Dei provvedimenti severi adottati senza riguardi contro i feudatari ed i nobili delle campagne, sono chiaro indice le lettere viceregine al Conte di Campione Governatore di Sassari.
E’ notevole il fatto che sotto il regno di Vittorio Amedeo, come pure sotto i successori, non siano mai stati obbligati a risiedere nell’isola i più potenti feudatari di Spagna a cui appartenevano i redditi di oltre metà della Sardegna. La ragione poté avere la portata essenzialmente politica di tener lontani elementi sospetti di devozione alla Spagna che davano sia al Viceré che al sovrano non poca ombra a causa delle voci allarmanti del pronto ritorno degli spagnoli sparse con frequenza e ad arte fra i sardi. Fu quindi loro semplicemente richiesto che prestassero il giuramento di fedeltà anche a mezzo di procuratore.
Anche la questione degli impieghi fu superata, secondo le direttive del monarca, con fine tatto politico per modo che servisse a consolidare le basi del nuovo partito sabaudo.
La nobiltà povera e priva di mezzi chiedeva insistentemente impieghi eccedenti le modeste disponibilità delle finanze e le domande piovevano numerose alla Segreteria di Stato. Una linea di equa preferenza, senza preoccupazione dei precedenti politici, fu seguita nei riguardi di ambe le parti. Per quanto riguarda i titoli nobiliari il sovrano concesse poi con relativa facilità la conferma a quegli aderenti del partito austriaco, quali il Valentino, il Villamarina, il Marchese della Guardia, che si mostrassero disposti a servire con devozione e fedeltà la causa regia.
Si escogitarono anche altri mezzi per attrarre la nobiltà non feudale, la più numerosa e meno ricca che, per le numerose concessioni del sec. XVII-XVIII in favore di famiglie sarde, prima ammesse con difficoltà nei ranghi stamentari, aveva preso considerevole sviluppo. Era intenzione sovrana che si concedessero ai nobili opportune moratorie per i loro debiti e che si gratificassero, finché fosse possibile, con impieghi e titoli, affinché rendessero utili servizi al governo.
Assai maggiori resistenze doveva invece trovare il nuovo dominio nei rapporti con gli ecclesiastici e con alcuni alti gerarchi della chiesa sarda, quali che siano le ragioni intime e certo complesse, che le determinarono. Pur ammettendo col Filia, il chiaro storico della Sardegna ecclesiastica, che non debba vedersi un’opposizione sistematica del clero sardo al Piemonte nei vivaci contrasti di questo periodo e che molta parte di essi fosse dovuta alle diverse concezioni giuridiche dei due poteri, certo vi ebbe gran parte un assai pronunziato spirito di intransigenza da parte di alcuni, non certo serafici, prelati che affacciarono pretese giurisdizionali in termini non sempre conciliabili con la dignità del governo.
Ma a determinare questo stato di cose, oltre che i precedenti della Sicilia ed i vivi contrasti con Roma anteriori all’accordo col pontefice Benedetto XIII (1726), non furono estranee le condizioni determinatesi negli ultimi tempi dei governi spagnolo ed austriaco, durante i quali il clero aveva avuto campo di allargare ed imporre privilegi a proprio vantaggio nella più ampia misura. Era chiaro che tali condizioni tollerate o tollerabili coi precedenti domini non potessero conciliarsi con le tendenze affatto opposte del nuovo, il quale, pur volendo in tutti i modi evitare gli urti con l’altro potere, non era disposto a vedere inceppata ad ogni istante la sua azione da innumerevoli contenzioni rampollanti da ogni nonnulla. Un interessante documento allegato ai dispacci viceregi riporta una lunga lista di questioni del genere avvenute presumibilmente nel giro di pochi mesi. Ora erano i frati di un convento che traevano a viva forza dalle mani della giustizia un reo arrestato a pochi passi dal territorio immune; ora un vicario generale che per liberare un inquisito dalle mani della giustizia laica gli rilasciava in tutta fretta una patente d’obrero per raccogliere elemosine; od un sostituto fiscale della mensa vescovile che eccepiva la sua qualità per opporsi agli ordini del Viceré; od infine un ufficiale regio che riceveva la scomunica per essere incappato, durante l’esercizio delle sue incombenze, in una delle tante maglie costituenti quella fitta rete di casi e d’eccezioni di cui era intessuta la giurisdizione ecclesiastica.
Né è a dire d’altra parte che il contegno del S.Remy nonostante il suo temperamento piuttosto angoloso, mancasse del tutto di prudenza e circospezione nei rapporti con gli ecclesiastici. Egli, come appare dai dispacci ufficiali, cercava sempre di evitare gravi competizioni con i prelati più battaglieri e anzi di ridurli opportunamente con blandizie e promesse (11). In ciò, talora a malincuore, egli obbediva alle recise istruzioni del sovrano che se ebbe a lodarlo per essersi fedelmente attenuto alla sua volontà qualche volta ne dovette revocare i provvedimenti.
Questo vivissimo contrasto con alcuni ecclesiastici dell’isola decisi a non recedere da una linea di rigida intransigenza di fronte al governo (12), doveva finalmente chiudersi a favore di quest’ultimo in seguito al felice esito dei negoziati con Roma. Essi avevano anche in questo campo una portata politica di prim’ordine in quanto consentivano al sovrano di proporre alle prelature sarde le persone meglio accette. Ma la vittoria che demolì i due principali oppositori (il Vicario Marras e il Vescovo ausiliario di Cagliari Mons. Sillent) non fu facile ed assorbì, come dimostra il primo decennio dei dispacci, buona parte dell’attività politica del sovrano, del Viceré e dei regi ministri. Non però fu vana fatica poiché preparò il terreno a quell’armonia tra i due poteri che non solo rese possibile, ma coadiuvò efficacemente in futuro l’azione governativa per il miglioramento dell’isola.
Animato da profondo spirito di giustizia nel governo dei popoli, il sovrano dimostrò fin dai primi istanti di governo, e indipendentemente da ogni preoccupazione politica, le più amorevoli sollecitudini verso il popolo sardo. Conscio pienamente della sua alta missione, intese nel suo più profondo e umano senso il dovere dei monarchi di accostarsi ai modesti e agli umili la parte più schietta dei sudditi, quella che ricambia con spontaneità, con attaccamento e riconoscenza le premure dei governanti, che costituisce il nerbo e la forza degli stati. Fin dal principio del suo governo espresse la ferma volontà che nessun segno di disprezzo venisse manifestato per le loro usanze allo scopo di non ferirne la dignità e i sentimenti; che il viceré dopo udite pacificamente le suppliche dei privati nelle udienze settimanali (secondo le vecchie norme spagnole) provvedesse con tutta sollecitudine alle istanze e ai ricorsi.
Questi intenti trovano non infrequente ritorno nelle disposizioni legislative dei successori, quasi a ricalcare la via tracciata dall’energica volontà di Vittorio Amedeo: che il povero fosse con occhio vigile sempre difeso dai soprusi dei grandi; che a lui si rendesse pronta e incondizionata giustizia che se ne ascoltassero le lagnanze e non gli si ricusasse aiuto. Né furono queste sole formule senza contenuto. Non mancano qua e là nelle carte numerosi cenni dei provvedimenti presi al riguardo, affermazioni della riconoscenza dei popoli e della loro soddisfazione.
Ed invero se il decennio 1720-1730 non registra alcune di quelle grandi riforme per cui è meritatamente noto in Sardegna il lungo regno di Carlo Emanuele III, esso è segnato indubbiamente da un proficuo ed intenso lavoro di riordinamento dello stato per via di assidue provvidenze atte a lenire gradualmente i secolari dolori dell’isola.
Fin dall’inizio del suo dominio Vittorio Amedeo dimostra non soltanto paterno interessamento per tutti i problemi isolani, ma anche assiduo studio del paese che intraprendeva a governare, coscienza dei suoi bisogni e del suo stato miserando. Se per ragioni politiche volle nei primi anni che nessuna attività venisse intrapresa, questo regime di ordine e di disciplina fu già per se stesso una riforma importantissima ed un notevole avviamento alle successive provvidenze.
Tra queste vanno ricordate le sollecitudini sovrane per introdurre gradualmente nel regno la lingua italiana, l’estirpazione dei gravi abusi, la repressione della delinquenza, il principio, imposto a tutti i dirigenti, di disinteressata giustizia che egli intendeva fermamente non fosse più conculcato (13).
A ragione poteva dunque il reggente la Real Cancelleria di Sardegna, nei suoi rapporti quotidiani a Torino, scrivere al Ministro Mellarede sintetizzando in poche parole l’operato di Vittorio Amedeo II per l’isola:
“Qui non ci è di nuovo che meriti l’attenzione di V.E. eccetto che questi popoli pieni di consolazione ed ammirazione dell’insuperabile clemenza di S.M. benedicono il suo nome per la gran provvidenza data al Regno. Non si cessa d’esaltar la sua beneficenza la quale non ha esempio nel corso dei secoli che ha dominato la Spagna”.

 

Note:

  1. Il Viceré riceveva il giuramento degli stamenti a capo coperto (cubierto) e prestava il proprio a capo scoperto. Questo giuramento è ben distinto da quello che il S.Remy (come ogni viceré prestò nelle mani del Reggente come rappresentante di S.M., di adempiere bene e lealmente le sue funzioni, nel 17.2.1721 e dell’altro di tener el secreto che i viceré prestavano secondo la prammatica relativa.
    1. bis) Mons. di Cariñena non di Carignano. Quest’Arcivescovo era spagnolo e portava il casato del paese omonimo.
  2. La qualifica di prima voce dello stamento militare sarebbe spettata al maggior titolato, secondo annosa tradizione al marchese di Laconi che era allora Don Giovanni Francesco di Castelvì figlio del defunto Don Agostino, ammogliato in prime nozze con Donna Giovanna Dexart. Dopo la morte del padre fu mandato dal tutore (Dexart) in Spagna ove divenne uno dei principali consiglieri di Filippo V che lo creò grande di Spagna nel 1704; nel 1710, all’epoca del tentativo di riprendere la Sardegna fu nominato viceré ma non prese possesso. Morì nel 13.8.1723 in Spagna. Ecco perché non fu prima voce nel 1720. Gli altri feudatari che avrebbero avuto diritto perché più titolati dei marchesi di Laconi e di Albis alla qualifica di prima voce erano da lungo tempo in Spagna, compreso il duca di Gandia possessore di uno dei più vasti feudi dell’isola.
  3. I vassalli delle ville ed incontrade erano rappresentati dal proprio sindaco o dal procuratore di questi, nominati per atto notarile appositamente e singolarmente stipulato. Ogni incontrada, villa, partido o gruppo di ville, mandava un proprio rappresentante, ma troviamo anche singole ville che mandano una rappresentanza propria (Teulada, Bitti, Usini, Sanluri, etc.)
  4. Identica procedura fu seguita per il giuramento prestato nel 4 giugno 1701 a Filippo V in mani del viceré Duca di S. Giovanni e nel 7 ottobre 1708 a Carlo III d’Austria in mani del viceré Conte di Sifuentes.
  5. Ne è un indiretto ma chiaro indice la monetazione del tempo coi maltagliati deformi e rozzi di Filippo III e IV punzonati per la Sardegna, visibili nel museo di Cagliari e pervenuti recentemente dal ripostiglio di Gestori. Sono reali Castigliani d’argento deformati dalle battiture e dalle tosature, a titolo bassissimo. Da un lato recano la croce dall’altro l’effige del re. Nello scambio monetario si calcolavano a peso.
  6. Essi furono tali che posero la cassa del Regno e del Comune di Cagliari nell’impossibilità di pagare i suoi debiti.
  7. Vol. Relazioni sulla Sardegna (compilate probabilmente negli anni 1717-1720). Il doc. si riferisce ai sardi seguaci di casa d’Austria elencati singolarmente.
  8. Si ricordano ancora Don Barnaba Barrero spagnolo, Don Giambattista Cugia sassarese, e Don Michele Cugia suo figlio; Don Martino Riccio cavaliere di Tempio (del partito di Villamarina) e suo fratello Don Giacomo passato in Corsica, Don Martino Villa caduto poi in disgrazia; Don Giuseppe Santuccio che aveva tre fratelli in Bonifacio; Don Giovanni Maria Maxio fatto cavaliere dall’imperatore e Don Giovanni Battista Garrucciu, cav. tempiese, ambi in Corsica; Don Francesco Litala Tedde di Nulvi la cui famiglia trovatasi esiliata in Bonifacio; Don Francesco Crococumina già tenente del Pr. Reale, a Torino; Don Pietro Nieddu di Nuoro ed il figlio Ignazio cadetto quest’ultimo, nel reggimento di Piemonte; Don Emanuele, Don Giuseppe, Don Salvatore, Don Bernardino e Don Giacomo Pes figli del Marchese di Villamarina; Don Giovanni Antioco Azor d’Oristano; Don Nicolas Machin y Torrellas; Don Francesco Melonda Ministro del Patrimonio di S.M. fin dal 1713; Don Giajme Carroz y Santus, Reggente la Tesoreria Reale; Don Ignazio Nater de la Vega che servì nella R. Ud. di Sardegna; Don Paolo Solar; Don Francesco Bertolotto; Don Giovanni, Don Antonio, Don Francesco e Don Giambattista Garrucciu, cavalieri tempiesi.
    Don Proto Misorro di Tempio passato in Corsica e Don Pietro Misorro, Don Luca Manconi figlio di Don Giacomo diCastellaragonese pure passato in Corsica con la famiglia; Don Giuseppe Santuccio di Castellaragonese, Don Gavino Martinez signore di Muros cav. sassarese genero del Marchese di Villamarina, creduto residente in Corsica; Don Giovanni Francesco Sisini morto da poco in Milano; Don Diego Pes di Tempio fratello del Marchese di Villamarina; Don Ignazio Ruzzo (Rizzo?) d’Alghero, aiutante della piazza di Cagliari al tempo dell’assedio; Don Maurizio Mannu sassarese (nella compagnia delle guardie di Sicilia; Don Giacomo Manca primogenito del Marchese di Mores; Don Gregorio Fortesa figlio del Conte di Monteacuto; Don Giovanni Battista Viglino cav. sassarese. Il Marchese della Guardia, fedele all’imperatore, lo aveva aiutato con soccorsi di grani in Barcellona e nell’assedio di Cagliari aveva assistito coi figli personalmente e anche con denari alla difesa di quella piazza.
  9. Questa pratica fu continuata con i successori. Carlo Emanuele, ad es. nominò nel 1761 il Governatore di Cagliari Solaro di Covone in previsione della morte del viceré. Il caso si verificò con la morte dell’Alfieri (1.4.1762). Per il periodo di Vittorio Amedeo II, cfr. A.S.T., Lettere dei Reggenti R.C. (Sardegna) 30.5.1725 e 15.4.1726.
    L’uso spagnolo era che, in caso di morte del viceré, la R. Udienza e il Reggente la Real Cancelleria dovessero avvisarne il Re e nell’interim governare col governatore del Capo in cui si trovassero.
  10. Ben presto doveva ricredersi e riconoscere che i nobili gli mostravano ogni riguardo e deferenza e sembravano contenti del nuovo dominio.
  11. Il S. Remy non dimostrò talora esatta comprensione dei tempi né degli intenti sovrani come quando propose di far rivivere l’inquisizione ormai tramontata nell’isola, per diminuire la potenza dei vescovi che ne avevano ereditate le attribuzioni.
  12. Con caratteristico ritorno nella storia uno di questi casi di ostinata opposizione al governo che aprono il dominio sabaudo in Sardegna doveva verificarsi due anni dopo l’annessione dell’isola al Piemonte (con l’applicazione della legge Siccardi) nell’episodio di Monsignor Marongiu Nurra che, pur di non cedere, preferì battere la via dell’esilio.
  13. Altri vantaggi della politica sabauda potrebbero ricordarsi. Il breve del 1726 fu il primo passo verso i successivi accordi con l’autorità ecclesiastica che portarono con Carlo Emanuele alle restrizioni notevoli del diritto d’asilo, e della sua abolizione, e con la chiesa a rapporti assolutamente rispondenti alle esigenze di un buon governo.
    Si omette di menzionare alcuni pregoni viceregi sulla sanità, sul porto d’armi, sull’agricoltura come altre direttive sovrane sulle monete, sulla carestia, sul donativo e sul modo di esigerlo che se pure non è di emanazione regia, furono sempre dettate e controllate assiduamente da Torino.
    Se in questo periodo di preparazione non furono emanate leggi notevoli fu provveduto a due notevoli raccolte manoscritte degli usi, delle leggi e delle più importante carte reali vigenti in materia ecclesiastica, dovute rispettivamente al Reggente Beltramo ed al giudice delle contenzioni Diego Cocco De Haro, le quali costituirono norma nei rapporti tra stato e chiesa. Codificazioni non furono fatte né erano ancora opportune. Con divergenza da un’opinione assai diffusa le leggi sabaude non erano in quel caotico disordine che si è voluto, con qualche esagerazione, rappresentare. Esse erano riunite in due celebri e dotte compilazioni, il Dexart: Capitoli di corte (1645), ed il Vico: Leggi e prammatiche (1640), risalenti a meno di un secolo dalla conquista e fino allora non sostanzialmente modificate, le quali con la vetusta Carta de Logu erano destinate a rimanere in pieno vigore ed osservanza fino a trasfondersi in gran parte nel Codice Feliciano (1827). Ne è prova il fatto che Carlo Emanuele pensò assai tardi ad una codificazione (1760) e soltanto sul materiale legislativo emanato da Casa Savoia.
    E’ vero che si erano aggiunte nuove carte reali, nuovi capitoli e nuovi pregoni, ma molte di esse non avevano tratto di legge generale, molti pregoni erano rimasti in vigore solo durante il viceregato in cui erano stati emanati e di essi si era fatto una specie di codificazione col noto pregone del Duca di S.Giovanni (1700) le cui sagge e severe disposizioni la Casa Savoia richiamò in molti dei suoi pregoni.