Ricerche sul regime giuridico della nobilta’ sarda

Armamento: Sono note le formule dei diplomi di cavalierato e nobiltà nonché la procedura seguita nei secoli XVII e nei successivi per il conferimento dei relativi titoli. Precedeva il rilascio del diploma di cavalierato, la cartilla de armaçon, cioè la commissionale regia diretta al viceré (o ad altro illustre personaggio che lo rappresentava), per armar cavaliere il concessionario. Il viceré (o chi per lui), con cerimonia solenne in cui non era neppure dimenticata l’accolade degli antichi tempi, lo cingeva della spada. (…)
Il candidato alla cavalleria si avanzava con la spada alla cintola accompagnato da due cavalieri (o in mancanza da due persone di qualità) e presentava la lettera regia all’incaricato dell’armamento che la prendeva dalle sue mani, la baciava rispettosamente, la posava sopra il proprio capo, dopo toltosi il cappello, e la consegnava quindi ad altra persona incaricata per la cerimonia. Il candidato poi si inginocchiava su un ginocchio, mentre quello che aveva presa la patente la leggeva per intero. Finita la lettura l’incaricato dell’armamento estraeva la spada e ne dava tre colpi sul candidato (uno su ogni guancia e un terzo sul capo) dicendogli ogni volta “quereys ser cavallero?”. Quegli rispondeva: “So es lo que he supplicado a su Magestad”. Dopo ciò l’incaricato diceva: “Dios hos haga bien cavallero” e rimetteva la spada nella guaina. Infine il candidato si alzava, restando compiuta la cerimonia, di cui un notaio redigeva apposito verbale.
Pagata la finanza d’obbligo ed i prescritti diritti di mezz’annata e sigillo, il concessionario veniva in possesso del relativo diploma sovrano che seguito per lo più da quello di nobiltà rilasciato spesso lo stesso giorno, talora anche a distanza di qualche anno. Durante il dominio spagnolo e nell’epoca sabauda fino allo scorcio del secolo XVIII, era consuetudine di descrivere minutamente nel diploma di cavalierato anche lo stemma gentilizio concesso, che, sotto i Savoia, trovasi anche conferito con diploma separato. Dalla fine del sec. XVIII in poi si hanno numerose concessioni di cavalierato e di nobiltà non accompagnate da alcuna concessione di stemma.
Unitamente agli altri privilegi inerenti al titolo di cavaliere, il nominato acquistava il diritto di fregiarsi delle armi gentilizie portandole nei tornei e nelle guerre, fregiandone la propria casa, la tomba di famiglia, ed i propri oggetti personali; inoltre acquistava la facoltà di “deferire ensem, calcaria et alia aurea ornamenta ad equestrem sive militare gradum pertinentia”.
In vari diplomi nobiliari del secolo XVII è pur compreso l’obbligo della registrazione entro i quattro mesi dei privilegi concessi, sotto pena di decadenza. La formula era: “volumus autem atque espresse jubemus quod antequam hoc privilegio utaris illud in officiis secretarii nostri regestri gratiarum presentare tenearis ut ibidem premissorum ratio sumatur de quibus per annotationem dicti secretarii in eodem factam constet”. Seguiva poi la sanzione: “quod si inter quadrimestre a die date presentis non adimpleveris, personae seu personis ad quam seu quas predictorum executio spectet, gratiam hanc nullius robur et valoris esse declaramus”.
Nelle commissioni regie d’armamento a cavaliere era espressa la condizione che, entro l’anno dalla cerimonia, dovesse il nuovo armato ottenere il diploma, a pena di nullità: “quod si intra unum annum a die date presentium (delle lettere cioè d’armamento) a nobis in forma solita id non obtinuerit, volumus presentem gratiam et concessionem nostram nullius esse roboris et momenti”.
Che tale fosse la clausola delle cartelle d’armamento nei secoli XVI-XVII è dimostrato dalla richiesta fatta nel parlamento del Marchese di Bayona nel 1633: “Avendo S.M. fatto grazia di armare molti cavalieri nel regno sardo e di concedere molte lettere di nobiltà e poiché quelli già armati dopo di aver pagato i diritti per i privilegi (tranne alcuni casi di concessione gratuita), già da un anno aspettavano i diplomi, si domandava che questi fossero spediti senza indugio, dato che nelle cartelle de armaçon era limitato il tempo per la spedizione di essi”.
Le suddette formule dei diplomi e l’accennata procedura furono indubbiamente seguite nei secoli XVII e XVIII e fors’anche nel secolo XVI. In modo alquanto diverso procedevano le cose nei tempi anteriori, come risulta dai diplomi più antichi.

I più antichi diplomi nobiliari sardi: Quelli depositati negli archivi dell’isola (prescindendo beninteso dalle concessioni feudali) non sono anteriori ai primi decenni del secolo XV. Le loro formule, che si riscontrano in uso durante tutto lo stesso secolo e nei primi del successivo, si diversificano da quelle dei diplomi rilasciati dalla cancelleria spagnola nei secoli posteriori, per tacere delle sabaude che sono pressoché una continuazione delle spagnole. Nel secolo XV i privilegi di cavalierato e nobiltà non sono conferiti con diplomi separati, come nel secolo XVII e nei seguenti fino al 1848; ma, alle persone distintesi particolarmente nel regio servizio, venivano rilasciati dei privilegia generositatis, di cui sarà utile esaminare le diverse parti.
Premesso l’esordio che è dovere della maestà regia ricompensare ed elevare a maggiori dignità ed onori coloro che ex civibus notabilibus aut antiquis burgensibus et progenitoribus honorabilibus protraxerunt originem e favorire quelli ai quali presertim meritorum laudumque et virtutum suffragantur praeconia, si accenna all’esistenza di queste condizioni nel concessionario.
Si viene quindi al dispositivo con le parole: “Vos…motu quidam proprio generosum facimus et creamus vosque in generosum attollimus, generosi quoque titulo et auctoritate decoramus nobilitamus et insignimus…, statuentes quod vos et filii et heredes seu successores vestri per directam lineam descendentes…in perpetuum sitis et sint et dicamini generosi et de genere militari in vim et robur privilegi generositatis presentis et ad militarem honorem gradum singulum et dignitatem quandocumque volueritis ac voluerint attolli, erigi et promoveri possitis et possint et eodem militari cingulo decorari”.
Dispone infine il dispaccio che il concessionario goda cum tota dicta prole, progenie et posteritate…omnibus illis privilegiis graciis…quibus ceteri generosi (oppure veri etiam et antiqui generosi, et milites) et persone de paratico…praesertim in dicto Sardiniae regno et civitate Sasseris (poiché questi primi diplomi riguardano specialmente cittadini di Sassari) gaudere sunt soliti. Si confronti come esempi il privilegio a Pietro Cariga di Sassari (1 ottobre 1443), quello del 27 giugno 1444 a Giambattista Milia, altro del 31 agosto 1439 a Valentino Cabra della stessa città e, tra i più antichi, quello del 16 novembre 1420 in favore di Pietro Fenu, pure di Sassari.
Altra variante della formula è che il concessionario goda dei privilegi quibus milites militari cingulo decorati sive personae militares et de genere generoso seu de paratico gaudere possunt cum tota…posteritate per rectam lineam descendentem.
Si ordine infine che il concessionario, i suoi figli e discendenti in linea retta (non di rado nei diplomi figura l’aggiunta utriusque sexus) siano ritenuti da tutti per generosi.
Dall’esame di queste formule può trarsi qualche utile osservazione, sebbene la scarsezza dei documenti (da integrarsi con quelli degli archivi spagnoli) non autorizzi a conclusioni assolute e definitive. Poche sono infatti le concessioni nobiliari della seconda metà del secolo XV e scarsissime quelle del XVI conservate negli archivi della Sardegna.
Il così detto privilegium generositatis dovette avere una portata più larga che quello di cavalierato (militar) dei tempi posteriori. Poiché la generositas è attribuita in parecchi dei suddetti diplomi ai discendenti utriusque sexus del concessionario, identificandola col cavalierato si dovrebbe accettare l’assurda ipotesi che questo venisse conferito anche alle femmine discendenti dell’investito. È da ritenere invece che, mentre il diploma di generosità attribuiva ai soli maschi la qualità di cavaliere, a questi ed alle femmine conferiva in pari tempo la particolare distinzione di lignaggio degli antichi generosi (la generositas in questo senso potrebbe includere l’assimilazione degli investiti e dei loro discendenti a quegli degli antichi generosi di Aragona e di Catalogna, vantanti una lunga serie di antenati illustri ed una particolare distinzione di natali. Essi si riallacciavano ai primi difensori della terra contro le invasioni arabe e formavano una speciale categoria. La nobiltà di natali derivanti dalla generositas non sembrerebbe pertanto coincidere con la nobilitas comunemente conferita più tardi nell’isola in virtù di speciale diploma, a seguito del privilegio militar. I generosi infatti in Aragona formavano braccio unico coi militars in contrapposto ai nobili menzionati separatamente, ed appartenenti ad altro stamento).
Il concessionario e i suoi discendenti d’ambo i sessi acquistavano così diritto al trattamento delle persone militares et de genere generoso seu de paratico ed erano ritenuti veri ed antiqui generosi et milites et persone de paratico, secondo le formule stesse dei diplomi.
Sembra pertanto logico ritenere che in Sardegna nei secoli XIV-XV fosse invalso l’uso di concedere, di regola, l’antica generositas, cioè quella forma di nobiltà (includente pure il cavalierato) di cui erano insigniti i discendenti degli antichi generosi di Catalogna. Più tardi mutandosi le cose, si abbandonò quest’uso per conferire separatamente anche in Sardegna i due privilegi di cavaliere e nobile, secondo le consuetudini già da tempo vigenti nella madre patria.
Non mancano in Sardegna concessioni di cavalierato non accompagnate da quelle di nobiltà. Esse tuttavia si fecero più limitate già negli ultimi tempi della dominazione spagnola. Così nei parlamenti del 1688 e 1698, la proporzione dei cavalieri non nobili su quelli nobili fu all’incirca in ragione da 1 a 5 (il re alla fine del secolo XVIII lamentava l’eccessivo numero di nobili e cavalieri e raccomandava di diminuire il più possibile il numero delle proposte per crearne di nuovi). Non manca qualche esempio del caso inverso, quasi eccezione (almeno apparente) al principio che in Sardegna, i nobili creati anteriormente al 1848, furono anche cavalieri.
Di alcuni concessionari del secolo XVII, l’Archivio di Stato di Cagliari possiede infatti i soli diplomi di nobiltà senza quelli relativi al cavalierato che, secondo la prassi del tempo, avrebbero dovuto precederli. In alcune di tali concessioni di nobiltà è fatta menzione del titolo di cavaliere evidentemente già conferito al concessionario con diploma precedente, mentre in altre non si ha traccia di un precedente conferimento del cavalierato stesso.
Esempio del primo caso è il titolo concesso a Giovanni Sanatelo oriundo di Sardegna nel 16-7-1630; esempio del secondo è la concessione di nobiltà ad Antonio Quesada Riva de Neira (20-5-1679) creato nobile per i servizi resi alla corona nelle ultime curie (motivazione che assai spesso serviva di base a conferimenti nobiliari). Della sua qualità di cavaliere, che non risulta da particolare diploma, non è fatta alcuna menzione in quello di nobiltà, in cui si accenna solo alla sua claritas natalium. Lo stesso avviene per il concessionario Gaspare Sillent di Sardegna (16-5-1679), pure creato nobile per il servizio reso nelle ultime curie. Ciò naturalmente non esclude che il diploma di cavaliere non abbia potuto essere rilasciato, anche in questi casi, anteriormente a quello di nobiltà. Probabilmente non ce n’è pervenuta notizia.

Motivi della concessioni: Erano generalmente o particolarmente espressi nei diplomi nobiliari i motivi delle concessioni e cioè i servizi resi dall’investito alla corona, allo stato od al pubblico in determinate circostanze. Da essi non doveva naturalmente andar disgiunta la fedeltà alla causa regia. Nei diplomi spagnoli non si fa particolar menzione di somme offerte al fisco per ottenere i titoli nobiliari (nel periodo sabaudo la finanza corrisposta per la concessione di diplomi di cavalierato e nobiltà era di Ls. 3750- oppure 6000 di Piemonte- tranne che, per motivi particolari del concessionario, non venisse accettata anche somma minore), espresse invece, sempre che fossero corrisposte, nei diplomi sabaudi. Negli uni e negli altri tuttavia, quando non si tratti (caso assai poco frequente) di concessione motu proprio, si leggono le seguenti formule (espresse naturalmente in lingua italiana, nei sabaudi più tardi): “Supplicatione tua benigne suscepta” e “Fuit tui pro parte humiliter supplicatum ut privilegium concedere dignaremur” chiaramente indicanti che il privilegio stesso veniva elargito in accoglienza delle umili istanze dell’interessato, presentate al sovrano dopo l’armamento.
Le somme in parola vanno bene distinte dai diritti di mezz’annata e sigillo che, salvo speciali dispense totali o parziali, si pagavano già sotto la Spagna per la registrazione ed il ritiro dei diplomi, come si evince chiaramente da quelli del secolo XVII e dai posteriori.
Si è altrove accennato a concessioni nobiliari fatte dalla corona in ricompensa di benemerenze e imprese belliche o per sussidi pecuniari offerti in tali imprese. Di questa natura furono quelle rilasciate (in occasione della cacciata dei francesi dall’isola nel 1793) a Giuseppe Marza di Ozieri (dipl. 3.12.1793); a Giorgio Marcello di Selegas (14.1.1794); ad Antonio Orrù di Sardara (12.9.1799 per le benemerenze acquistate dal figlio Raimondo); all’avv. Tommaso Cabras luogotenente delle Torri in Gallura (11.5.1796).
Meritano però di essere ricordati in tempi più antichi alcuni dei più fulgidi esempi di concessioni nobiliari per fatti d’armi e benemerenze belliche acquistate dai concessionari, sia dentro che fuori dell’isola.
Così al cav. Francesco Esgrecho fu concessa la nobiltà nel 6.4.1615 per le benemerenze dell’avo Francesco Capitaneus cohortis peditum in espulsione francorum qui eamdem civitatem Sassaris oppressam in anno 1528 habebant.
Nicola (de) Quesada fu insignito della nobiltà nel 14.3.1582 perché sua sagacitate atque summa diligencia consecuta fuere vincula ac compedes bannitorum de Monteagudo…et fuit in tuto praedicta incontrata
Bernardino Puliga nel 1.9.1593 fu investito del cavalierato per l’opera prestata in recuperando prado et liberandis hominibus villae de Siniscola…e manibus turcorum qui ipsam in mense februari 1581 invaserant e quibus multi capti et occisi remanserunt…cum suae maximo vitae…pericolo.
Juan de la Camara y Manno di Sorso nel 26.2.1647 fu creato cavaliere per i servizi resi belli Flandriae in classeque regia ac denique in Hispania copiis cum magna satisfactione.
Don Francesco Pes di Villamarina ebbe il marchesato con diploma 27.2.1711 per l’opera prestata e per le spese sostenute in reductione Regni Sardiniae ad nostram regiam obedientiam (di Carlo VI d’Austria), signanter in invasione per inimicos tenta in Terranoba”.
Giovanni Maria Ansaldo di Sardegna ebbe nel 1605 il cavalierato per le benemerenze dell’avo paterno Francesco Ansaldo in Italia e per quelle in expeditionibus Argerii et Tuneti quaeque tulit Joannes Hieronimus Ansaldo, padre di lui.
Stefano Sussarello ebbe il cavalierato nel 31.5.1539 maxime pro defensione istius regni nostri Sardiniae contra Turchos, saracenos, anche con pericolo della vita.
Ma in gran parte le concessioni nobiliari erano accordate (come le onorificenze di oggi) a persone pervenute ad alti gradi dell’esercito, della magistratura, della burocrazia o dell’insegnamento universitario. Ai magistrati della Reale Udienza spettava di diritto la nobiltà personale e la qualifica di Don ad essa inerente. Né mancarono, specie in favore di ecclesiastici, di professori e di funzionari, privilegi di concessione della nobiltà personale, distinta dalla progressiva, in quanto, non essendo essa trasmissibile agli eredi, beneficiava soltanto alla persona e finiva con la sua morte.
È da ricordare a questo riguardo che per il R. Editto 24.6.1823 sulla pubblica istruzione in Sardegna, si concedeva la nobiltà personale a quei professori di legge che avessero durato 25 anni nella carica, e cioè il titolo e il grado di giudici della R. Udienza e che ai professori delle altre facoltà si davano le onorificenze corrispondenti. I professori di legge che attendevano esclusivamente all’impiego raggiungevano tale onorificenza dopo 20 anni.

Exequatur ai diplomi nobiliari: Non era sufficiente che il concessionario venisse in possesso dei diplomi nobiliari, ma si richiedeva che essi venissero presentati alla R. Udienza di Sardegna per l’exequatur a pena di inefficacia. Tale norma, di portata generale, si estendeva a tutte le provvisioni, le patenti ed i privilegi provenienti da fuori regno, i quali non diventavano esecutivi senza il predetto exequatur. È da credere che tale principio sia sorto con l’istituzione del Supremo Tribunale dell’isola (1564). Anteriormente, le carte e i privilegi reali, muniti sempre di per se stessi dell’esecutoriale sovrana, venivano presentati, a cura dell’interessato, al viceré, od anche al procuratore reale (se si trattava di provvedimenti d’indole patrimoniale), e l’uno dei due, secondo i casi, dopo ascoltata debitis reverentia et honore la lettura fattane in sua presenza ad alta voce da un notaio di curia, si dichiarava promptus et paratus regiis obbedire mandatis. Fino al 1682 non esistevano registri speciali di exequatur e gli ufficiali regi si limitavano ad apporre nota di esso sugli originali presentati e ritirati dagli interessati.
Tuttavia per ignoranza o per incuria dei loro antenati, i discendenti dei concessionari di titoli nobiliari trovavansi non di rado in possesso di regi diplomi non muniti di exequatur, che incorrevano sempre nell’impugnativa del fisco a sensi delle leggi patrie.
Resta da accennare ad alcuni speciali casi in cui i diplomi furono presentati per l’exequatur allo Stamento Militare anziché al viceré o alla Reale Udienza. Così i tre fratelli Ansaldo, Giovanni Maria, Francesco e Gavino, creati cavalieri con distinte patenti del 3.10.1605, sia per i loro meriti, che per quelli acquistati dal nonno paterno Francesco nella spedizione di Algeria e di Tunisi e dal loro padre Girolamo Ansaldo, presentarono nel 20.3.1606, per l’exequatur i loro diplomi allo Stamento Militare del Capo di Sassari e di Logudoro convocato et congregato (nella chiesa di Santa Caterina della città) pro negotiis et causis ad dictum stamentum militare tangentibus. La procedura fu identica a quella seguita in tempi passati presso il viceré o il procuratore reale. Lette le patenti dal notaio di curia, i membri dello Stamento, dopo averle ascoltate con reverente attenzione, si dichiararono pronti Sacrae Catholicae Regie Magestatis obbedire mandatis e ad accogliere i nominati in seno all’assemblea.

Privilegi dei cavalieri e nobili: Sottratti alla giurisdizione ordinaria del veghiere al pari dei loro servi e familiari, erano soggetti direttamente a quella del Viceré e dei governatori dei due capi. Tranne che per i delitti di falsa moneta, sacrilegio e sodomia erano giudicati da un Consiglio di Pari. Inoltre si applicavano loro determinate pene in sostituzione di certe altre vigenti per i plebei. Così, alla corda veniva sostituita la mannaia, la deportazione alla pena di morte, la relegazione a quella del remo. Potevano liberarsi con denaro dalle ingiurie loro fatte da questi, erano punite più gravemente che quelle arrecate a persone di bassa condizione. Potevano portare armi, erano esenti dalle torture (tranne nei delitti più gravi), non potevano essere carcerati per debiti civili, neppure in forza di carta di terzo. Come gli ecclesiastici non erano soggetti a certe contribuzioni. La citazione nei loro riguardi era nulla se non era fatta cum cartello, cioè col termine di 26 giorni.
Erano considerate ingiurie lievi quelle verbali fra persone della stessa condizione purché non nobili e solo per esse si procedeva a querela di parte anziché d’ufficio; per le parole ingiuriose in pubblico il giudice poteva scegliere tra il carcere e la pubblica ritrattazione secondo la qualità delle persone, essendo ristretta evidentemente la seconda ai non nobili.
Anche nelle ingiurie più gravi, nei delitti di diffamazione, di concubinato nei fatti costituenti sfregio, danneggiamento e nelle percosse, la pena era sempre ragguagliata alle qualità delle persone e naturalmente minore per quelle come i nobili e i cavalieri, di più elevata condizione sociale. Infine, le persone appartenenti allo Stamento Militare, i laureati, come pure le donne, non potevano essere assoggettati alla pena della galera, ma nel caso di condanna, doveva essere proporzionata a tale pena quella del carcere.
I nobili che venivano condannati al presidio fuori regno dovevano essere tradotti al Castello di Villafranca come già si praticava, a sensi dell’art. 23 del regolamento 29.8.1755 (Istruzioni di Carlo Emanuele III al viceré). Tale pena del presidio, dentro e fuori regno, fu tuttavia abolita col R. Editto 13 Marzo 1759 e sostituita da quella del carcere o della catena a tempo, secondo le circostanze del delitto e la condizione del delinquente. Il Codice feliciano (art. 1708) mantenne intatta tale ultima disposizione.
Questi particolari privilegi venivano a cessare dopo la fusione della Sardegna con gli stati continentali (30.11.1847) e con l’estensione all’isola delle leggi piemontesi (codice albertino, civile e penale del 1839) avvenuta in data 5.8.1848. Abolita così la vecchia legislazione sarda e proclamato dallo Statuto il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, i nobili, i cavalieri e i feudatari, pur conservando i loro titoli in virtù delle antiche concessioni, vennero a perdere le franchigie ad essi annesse.
I cavalieri, i nobili, i feudatari che avevano il diritto di intervenire alle sedute parlamentari e darvi il loro voto, erano pure ammessi a votare per procura e sono numerosissimi gli atti notarili dei membri dello stamento per nominare all’uopo i loro rappresentanti. Nel parlamento di Giovanni Coloma (1575) era vietato che essi tenessero per procura più di quattro voti ciascuno. Pertanto, nel Parlamento del Duca di Gandia del 1615 essi, con la motivazione che il provvedimento ridondava a danno degli assenti, i quali per le difficoltà del viaggio e per le spese non potevano concorrervi, chiesero che la rappresentanza fosse ammessa senza limitazione di voti (anche per la difficoltà di trovar persone cui commettere il loro voto) come si praticava prima della limitazione sancita in quel parlamento. Ma sebbene il viceré avesse concesso che ogni militare potesse disporre oltre che del voto proprio, di altri sei voti, il re prescrisse rigorosamente che si osservasse la disposizione del parlamento del Coloma.
Nello stesso parlamento del 1615 si chiese dai tre ordini che fosse precisata l’età dei membri dello Stamento Militare ammessi al voto, poiché si era usato in passato di ammettervi anche persone dell’età di 16 anni. Il viceré ammise che potessero votare a 18 anni (a 24 anni compiuti per gli uffici). Ma il re modificò la prima parte intendendo che non fossero ammessi a votare prima dei 20 anni. In quel parlamento fu pure proposto e approvato che non fossero ammesse ai parlamenti se non persone forestiere che vi avessero fissato stabile dimora o che appartenessero a regno ove in simili atti fosse ammesso qualche sardo. Il viceré consentiva facendo eccezione per quanti appartenessero alla corona d’Aragona o fossero procuratori dei baroni assenti. Ma nel parlamento del 1633 si approvò che nessun forestiero anche se suddito del re, fosse abilitato allo stamento.
Nello stesso parlamento fu proposto e approvato che non si potessero dare le procure che a rappresentanti insigniti del cavalierato ad eccezione dei procuratori dei signori viventi negli stati di terraferma e posti al governo dei loro feudi, i quali potevano entrare nello stamento pur non essendo militars.
Circa le abilitazioni era stabilito che gli stamentari abilitati in due corti successive, non avessero bisogno di altra abilitazione.
I feudatari e i nobili (non i cavalieri) erano poi esclusi dal reggimento della città di Cagliari ostandovi i privilegi concessi alla medesima. Questo divieto includeva in origine anche i cavalieri, contro cui però non esistevano i motivi di incompatibilità riscontrabili a riguardo dei primi, a pregiudizio dei quali la città possedeva alcune franchigie (provvisione di frumento, carni, etc…). Inoltre, l’influenza di quei magnati e la loro potenza economica avrebbe assicurato ad essi una forte preponderanza in seno al consiglio.
In seguito alla richiesta formulata nel parlamento del 1510 ed a prammatica regia del 14.4.1511, i cavalieri furono ammessi limitatamente al reggimento della città, ferma restando l’esclusione per i nobili ed i feudatari, in analogia ai privilegi della costituzione barcellonese.
Per la città di Alghero fu stabilito che annualmente nel giorno di S.Tommaso (21 dicembre) dovessero eleggersi 5 probi uomini proceres in juratos vel consules; unum de generosis sive militibus alium de civibus, alium de mercatoribus, alium de ministerialibus et alium de agricoltoribus. Ma più tardi, con carta del 23.11.1363, data la mancanza in Alghero di persone generose, fu abolita la disposizione per la quale uno dei consiglieri doveva essere scelto fra esse.
Anche l’ufficio di vicario della suddetta città era per antico uso concesso solo a persone di genere militare o generose. Con carta 30.9.1444 fu stabilito che, essendosi per le circostanze di guerra trascurata la consuetudine in parola, tale carica non potesse darsi se non a persone probe, onorate e capaci, designate sei mesi prima della decadenza del vicario in carica.
La nobiltà infine dava diritto a certe onorificenze (come alla concessione della Croce di Giustizia dei SS. Maurizio e Lazzaro), purché essa esistesse per quattro quarti nel postulante.
Quanto alla nobiltà feudale, il codice feliciano (art. 315) mantenne ancora il privilegio sancito nei Capitoli di Corte e dalla Carta Reale in data 30.1.1689, che cioè la primogenitura vigente nei feudi, per immemorabile consuetudine, si intendesse sempre regolare anche in concorso di donne, se esse fossero (benché in difetto di maschi), chiamate dalla concessione feudale, eccetto che diversamente si fosse provveduto o dalla stessa concessione, o per disposizione dell’investito del feudo, il quale o in virtù della stessa concessione o a termini di legge, avesse la facoltà di disporre e prescrivere l’ordine di successione tra le persone chiamate e comprese nell’investitura.
Tutte le cause di militia, nelle quali uno pretendeva di provare d’essere cavaliere o nobile o di competergli altro titolo onorifico, dovevano essere istruite davanti alla R.Udienza, ma dopo essere assegnate a sentenza diventavano, per la decisione, di competenza del Supremo Consiglio di Sardegna a sensi del Regio Biglietto 3.12.1732 (art. 481 cod. feliciano). Il Supremo stesso poi inviava i suoi voti alla R.Udienza perché profferisse la sentenza in conformità dei medesimi (art. 481 e 474).
Dalle sentenze definitive le quali fossero profferte contro i nobili e i cavalieri, secondo la procedura speciale per essi sancita dall’art. 2257 del codice feliciano, poteva solamente il R.Fisco supplicare trattandosi di delitti che recassero di loro natura infamia o tali che disdicessero al carattere di cavaliere (carta reale 16.7.1642 e art. 2277 stesso codice).
Per l’art. 21 del regolamento 29.8.1755 i nobili delinquenti nell’esercizio di qualche impiego, dato che avevano col giuramento inerente all’impiego rinunciato al proprio foro, dovevano essere giudicati dai giudici o tribunali da cui l’impiego dipendeva e equiparati a tutti gli altri impiegati non nobili, che avessero commesso uguali mancanze.
Però i cavalieri imputati di delitto nell’esercizio di impiego (come ad es. di reggitore) erano giudicati dal R. Consiglio senza l’intervento dei militari per la carta reale 29.7.1739.
Da una carta dell’archivio comunale di Baghero in data 27.5.1340 apprendiamo che, quando fosse presente in Sassari il governatore, questi, ad esclusione del vicario, doveva giudicare i nobili civilmente e criminalmente nonché i decorati militari cingulo ed i loro familiari: assente il governatore, il vicario doveva giudicare costoro soltanto civilmente e per eccessi criminali limitarsi a farli arrestare, pur potendo giudicare i loro familiari, commensali ed i seguiti (continuis), anche se persone generose. (Cfr. Era: Le carte del comune di Alghero, n. 20 e carta n. 32 del 27.6.1355 per cui dal giudizio del vicario o del suo luogotenente sono esclusi i generosi. Con carta 15 marzo 1399, il re ordina al governatore di non intromettersi nelle cause civili di primo grado ed in quelle criminali degli abitanti di Cagliari delle quali ultime avrebbero dovuto giudicare i consiglieri ed i probi uomini, ammenochè non si fosse trattato di crimini in cui la giustizia avrebbe potuto essere sovvertita per la nobiltà e potenza degli accusati, spiegando che per nobili e potenti si sarebbero dovuti intendere solo i baroni e le altre persone di grado nobile e militare).
A sanzione del dovere dei padri di famiglia specialmente nobili per la conveniente istruzione dei figli, era prescritto che qualora avendo un patrimonio sufficiente non vi provvedessero da sé e persistessero in tale condotta anche dopo amichevole ammonimento del viceré, si nominasse tra i parenti un curatore speciale per la educazione dei figli a spese del padre, dichiarando questi da ogni pubblico ufficio. Era probito poi ai nobili dei villaggi di collocarli presso famiglie di condizione molto inferiore alla loro, quando avessero i mezzi per collocarli in un collegio.
Ai benestanti che mandassero i figli a studiare nei collegi era concessa poi l’esenzione personale a vita dalla giurisdizione feudale e la prerogativa che, al pari dei nobili, andassero soggetti al magistrato regio tranne che per il pagamento dei diritti feudali.
I privilegi che i cavalieri e i nobili avevano in Sardegna trovano riscontro in quelli che godevano in Spagna. Come si rileva dai testi catalani e spagnoli, anche là non erano soggetti alle pene dei plebei per quanto grandi fossero i delitti commessi; non potevano essere torturati se non per sodomia, lesa maestà o eresia. La cavalleria era poi incompatibile con l’esercizio della mercatura.
Anche in tutte le controversie che si riferiscono ai privilegi e alle esenzioni dei cavalieri e nobili, dai tribunali e dalle parti contendenti, è fatto continuo riferimento al diritto catalano cui si ispiravano la giurisprudenza e la consuetudine di Sardegna nella prassi quotidiana. Ne sono un esempio gli atti della lite tra i discendenti di Gemiliano Serra di Sorgono creato generoso da Ferdinando il Cattolico (con diploma 20 novembre 1480) che fu poi confermato (nel 25.4.1538) da Carlo V in persona del figlio Leonardo, e l’arrendatore delle rendite di quel paese, pretendente dai Serra il pagamento di alcuni tributi reali e personali, da cui essi si asserivano esenti in virtù dei loro privilegi nobiliari.

Abusi dei cavalieri e nobili e dei titoli nobiliari: Non sembra poi che i cavalieri fossero sempre, almeno nell’interno dell’isola, modelli di virtù e di ordine sociale. Non mancano processi criminali contro di loro per omicidi, rapine e falsa moneta anche nel secolo XVIII e XIX. Una carta reale del 25.5.1737 ordinava di procedere con tutto il rigore della giustizia, contro quei cavalieri, specialmente del capo di Sassari, che prendevano parte a furti ed omicidi o proteggevano i banditi ed i facinorosi. Di vari processi contro i nobili intentati per delitti di varia natura si ha notizia nell’abbondante raccolta delle cause penali della R. Udienza e nelle sentenze dello stesso archivio, emanate da quel magistrato. Sono pure note le turbolenze della nobile e temuta famiglia dei Delitala di Nulvi favoreggiatrice dei banditi del capo di Sassari forse anche per ragioni politiche. Negli ultimi mesi del 1735 il viceré dovette così ordinare una spedizione di truppe in quel comune, centro di banditismo, capeggiato, come dice lo stesso viceré, dai nobili del luogo.
Anche la villa di Tempio era afflitta e funestata da questa forma di banditismo capeggiata dalla nobiltà ed era indicata dal viceré come centro pericolosissimo di delinquenza, essendo i cavalieri del luogo essi stessi dei banditi in corrispondenza anche coi ribelli corsi. Oltre la ben nota e quasi leggendaria Donna Lucia Delitala va pure ricordato un Don Antonio Delitala Cubeddu. Nel dispaccio viceregio del 17.11.1736 si citano come capi di banditi i cavalieri Misorro di Tempio, Delitala di Nulvi, Giovanni Pietro Mella o Mela di Sassari, e Giovanni Tedde.
Turbolenze e fenomeni del resto non peculiari alla Sardegna che ricorda assai debolmente quanto su vasta scala avveniva già nella penisola iberica. È noto come la Castiglia fosse “teatro nel sec. XV, d’una così spaventosa lotta dei nobili fra loro e contro le città, di tutti contro la sovranità e le leggi, che disordini, congiure, violenze, sfide, tumulti, incendi, ruberie e omicidi riassumono tutta la disgraziata storia di quei tempi. Se nelle città le vie erano trasformate in campi di battaglia tra le fazioni, i signori si disputavano dappertutto le terre, le fortezze e l’influenza con le armi come facevano in Andalusia, il Duca di Medina Sidonia col Marchese di Cadice e il Conte di Cabra con Don Alfonso d’Aguilar sino al punto di devastarla e spopolarla, mentre la Vecchia e la Nuova Pastiglia erano interrorite da un brigante impadronitosi del Castello di Castromeno” (Savelli, Storia di Spagna).
Del grave fenomeno, del resto non nuovo nell’isola, si preoccupa anche il R. Regolamento 12.4.1755 stabilendo, al n. 22, che se i nobili o i cavalieri proteggessero ladri, banditi o malviventi, il viceré li chiamerebbe a Cagliari ovvero a Sassari (se di quel capo), e li farebbe stare in stato d’arresto finché consegnassero alla giustizia i malfattori protetti. Se poi si cominciassero a formare fazioni o partiti, se ne chiamassero i capi per tenerli in arresto finché non avessero fatta la pace con la parte contraria e data ragguardevole cauzione di non commettere offesa o danno.
Un controllo sulla condotta dei nobili doveva poi celare la disposizione che i titolari e i nobili di Cagliari, quando si assentassero dalla città, ne chiedessero licenza al Viceré e nel ritorno dovessero a lui presentarsi; che quelli di Sassari, prima di partire dalla città si portassero da quel governatore per licenziarsi e anche al loro ritorno per visitarlo. Che questi poi dovesse a sua volta rendere ai medesimi la prima visita per augurar loro il buon viaggio e la seconda per congratularsi del loro ritorno.
Il regolamento 12 aprile 1759 accenna inoltre nel §20 ai favoritismi usati verso i membri dello Stamento Militare tra i quali si trovavano anche, come se ne deduce, dei banditi e facinorosi. I pari, nei giudizi penali, ne minoravano arbitrariamente la pena e l’avvocato fiscale regio non appellava dalle sentenze a loro carico. A ciò aveva tentato di rimediare la carta reale 27.5.1741, la cui osservanza si raccomandava particolarmente al viceré nel citato §20.
Poche disposizioni troviamo nei documenti del XV e XVI secolo a sanzione dell’abuso dei titoli nobiliari e feudali. Né molto di più troviamo in tempi più recenti. La carta reale del 30.6.1636 sancisce provvedimenti contro quelli che vantano abusivamente i privilegi di cavalierato e di nobiltà. Nell’Archivio di Cagliari troviamo alcuni fascicoli di processi contro persone colpevoli di aver abusato dei titoli di nobile e cavaliere, i quali solo poteva assumere chi avesse riportato le necessarie patenti passate all’exequatur o chi dimostrasse che egli o i suoi antenati erano stati riconosciuti tali in due corti successive, sotto le sanzioni penali provocate ad istanza dell’avvocato del fisco.
Ed invero il fisco si mostrava più che zelante nel chiedere l’esibizione dei documenti e la prova dei titoli a coloro che li assumessero o si facessero qualificare pubblicamente cavalieri e nobili. Non era raro specialmente il caso che semplici cavalieri abusassero del titolo di nobile e dell’inerente qualifica di Don e che il fisco li riducesse nei limiti dei loro diritti dopo una diffida legale ed un opportuno atto di sottomissione. In tutte le controversie del genere, l’avvocato fiscale esigeva la prova piena della nobiltà e cioè o i titoli originali passati all’exequatur, o la prova legale dell’abilitazione in due corti successive a favore degli antenati dell’interessato, mostrandosi difficilmente disposto ad ammettere equipollenti.

I Domicelli (Donzells): Secondo il Bleye (Manual de historia de Espana) chiamatasi Donzello o Scudiero (escudero o doncel) il figlio del nobile che non era stato armato cavaliere. A questa opinione si accosta il Pinna (Magistrato Civico di Cagliari) secondo il quale tale titolo conferivasi ai figli dei feudatari, dei nobili e dei cavalieri ed erroneamente attribuivasi talora, come sinonimo di cavaliere, a chi era già investito della dignità equestre. Sembra troppo generica e non esauriente la prima affermazione, in quanto non risulta se tale appellativo si desse al figlio del feudatario in quanto era tale, oppure in quanto era figlio di un cavaliere primo investito del titolo.
Nell’opera del Bosch (Titols de honor de Catalunya) si legge: Los donzells son aquells que no son armats cavallers, si no son fills y descendents dels cavallers armats de manera que lo quis arma y obte le privilegi, es propriament cavaller, sos descendents donzells.
E’ da ritenere che così avvenisse realmente nella prassi giuridica del tempo, rispecchiata dall’enunciato del Bosch. Per quanto riguarda la Sardegna, l’uso assai frequente del titolo di Donzell dato agli stamentari negli atti dei parlamenti del secolo XVI giustificherebbe l’applicazione di tale massima anche nell’isola: il primo armato in virtù del diploma o delle commissioni regie, sarebbe propriamente il cavaliere; i suoi discendenti, cavalieri di diritto senza necessità dell’armamento, sarebbero i donzells.
Come risulta dagli elenchi e in genere dagli atti parlamentari, il titolo di donzell non è generalmente accompagnato dalla qualifica di Don. Ciò indica chiaramente che esso si riferisce alla qualità di cavaliere, non a quella di nobile.
Il titolo di donzell non si legge ormai più negli elenchi ufficiali degli intervenuti ai parlamenti del secolo XVII, come rilevasi dagli atti parlamentari. Invece se lo attribuiscono ancora frequentemente nel sec. XVII molti membri degli stamenti nelle procure rilasciate ai delegati per rappresentarli alle sedute, procure le quali trovansi normalmente allegate agli atti citati, in quanto erano prese in esame dagli abilitatori per decidere sulla validità dei titoli presentati. In essi il titolo di donzell non è di regola accompagnato né dalla qualifica di Don né da quella di cavaliere.
Nel secolo XVIII, e posteriormente, non troviamo più il titolo di donzell nei documenti ufficiali, ma soltanto i titoli di cavaliere, nobile e la qualifica di Don.

Carattere non nobiliare degli uffici patrimoniali in Sardegna: In Sardegna non troviamo concessioni di uffici, di emolumenti, diritti patrimoniali o scrivanie che di diritto nobilitassero i possessori. Salvatore Lostia di Santa Sofia, che ottenne i proventi della R. Tappa di Insinuazione di Cagliari con atto 15.1.1744, non fu creato nobile e cavaliere che in virtù del diploma regio 10.12.1767, di per sé stante e indipendente da quel possesso. La Tappa di Insinuazione di Cuglieri, appartenente a Don Pietro Vivaldi Trivigno Pasqua Duca di S.Giovanni, alienata a Don Carlo de Quesada nell’8.2.1834, non conferisce al possessore i titoli feudali già concessi coi feudi di Cuglieri e Scano (rispettivamente Contea e Viscontado). I Sanjust ricevono i titoli feudali di Tuili e Neoneli come compenso della retrocessione al patrimonio regio delle scrivanie della Luogotenenza Generale, della R. Cancelleria e R. Udienza, il cui acquisto non nobilitò certo il loro dante causa e cioè certo Giambattista Gabella, acquisitore di esse nel sec. XVII. Così pure Melchiorre Garcet ottenne il titolo di nobile e la concessione di 200 scudi annui per tre vite col titolo di governatore del Goceano, per un triennio, dal viceré marchese di Bayona, per la rinunzia alla scrivania della Luogotenenza Generale dei capi di Cagliari e Gallura, di cui era proprietario, fatta al sovrano. Prova ben evidente che tale possesso non era valso a conferirgli la nobiltà.
Anche le scrivanie della R.a Proc. del capo di Cagliari e Gallura, concesse in enfiteusi nel 7 maggio 1445 a Giacomo Caxa e passate poi successivamente da questi ad Antonia Alagon, a Francesco Sellanti (nel 1547), poi al notaio Pietro Sabater, prima di venire in mano di Michele Cervellon, marchese de las Conquistas (1714), non avevano nobilitato tali possessori.
Lo stesso caso del Garcet possiamo citare per Pietro Abrich il quale, rinunciando alla scrivania del Consolato di Cagliari (che aveva a vita) a favore di S.M., ebbe da questa il titolo di nobile e cavaliere e 50 ducati annui di pensione vitalizia sopra il diritto di peschiera di Cagliari.
E’ però da ricordare che l’editto 15 maggio 1738 stabilente in Sardegna gli Uffici di Insinuazione (seguito dall’editto 12.2.1743) concedeva agli insinuatori, per speciale privilegio, la esentazione dai carichi personali unitamente al titolo onorifico di Segretario del Re e di Consigliere perpetuo, delle città e ville di loro residenza. Prescriveva poi che si dovessero confermare agli insinuatori le armi gentilizie antiche e moderne delle loro famiglie; che non avendole essi, si sarebbero accordate senza la corresponsione di alcun emolumento.
Queste concessioni onorifiche tuttavia non implicavano alcun conferimento di titolo nobiliare, sebbene tali armi fossero concesse anche per i loro discendenti. Tale è ad esempio la concessione delle armi fatta al citato Lostia Salvatore acquirente dell’Ufficio di Insinuazione di Cagliari. Egli fu creato cavaliere e nobile, come si è visto, con diploma posteriore del 10.12.1767. Tale è anche il caso di Giuseppe Delrio che, come acquirente della Tappa di Insinuazione di Bosa, ebbe le armi gentilizie per sé e per i discendenti maschi agnati a tenore dello stesso editto 12.2.1743.
Tuttavia, come si è già notato altrove, l’elemento patrimoniale era tutt’altro che estraneo al conferimento di titoli nobiliari, anche per le quotidiane strettezze del fisco, né mancano esempi di titoli feudali elevati di grado, in corrispettivo di somme offerte alla cassa regia. Così nel 1638 si ordina a Don Ambrogio Martì, depositario della rendita del patrimonio regio, di pagare per sussidio a Don Giovanni d’Austria che si trovava a Napoli, e per le sue milizie spagnole, L. 1529.10.2, dal deposito delle rendite delle baronie di Galtellì e di Orosei, da lui ricevute in conto dei 111.000 reali dovuti per lo titol de marques que Sa Magestat ha fet merced al senor que sera de dita baronia. Più tardi le rendite di quel feudo furono sequestrate per rimborso di parte di quanto avevano offerto Don Antonio Manca y Guiso y Don Gavi de Cardona, per la grazia del suddetto titolo (per raho de la merced del titol de marques que se lis ha fet).
Ragioni patrimoniali determinavano anche la concessione a enti e persone singole, della facoltà di disporre di qualche cavalierato e nobiltà (purché in favore di persona idonea), come corrispettivo di oneri assunti dalla regia cassa verso gli stessi enti e persone. Un cavalierato ed una nobiltà si era soliti dare al predicatore del parlamento perché ne traesse, cedendolo, il personale profitto di 600 scudi e più. Così i titoli nobiliari diventavano talora (nell’epoca spagnola) qualche cosa di simile alla moneta, in quanto servivano ad estinguere impegni economici contratti dal fisco, ferma restando, è da credere, l’approvazione sovrana circa la persona dell’investendo.

Matrimoni dei nobili: Disposizioni speciali troviamo riguardo al matrimonio dei nobili. Per i non nobili, in mancanza di convenzione o patto espresso, si intendeva di diritto contratta fra i coniugi la comunione dei beni; non si intendeva però contratta tra persone che al tempo del matrimonio fossero entrambe, od anche una di esse, nobili (art. 174, cod. feliciano).
Per mantenere poi il lustro delle famiglie di antica e generosa nobiltà era stabilito che, qualora i membri di esse contraessero matrimonio inconveniente ed indecoroso, non solo fossero privi di essere ammessi alla Corte, ma sulle istanze dei parenti, dovessero punirsi con le pene economiche proporzionate alla qualità della mancanza (art. 1863 cod. feliciano). La R. Udienza, o la R. Governazione nel capo di Sassari, oltre a punire le persone che contraessero matrimonio disonorante o ignominioso anche con pene arbitrarie ed economiche era incaricata di impedire i matrimoni capricciosi, inconvenienti e contrari alla pace delle famiglie, se pure non ignominiosi, con provvedimenti e pene opportune.
I fedecommessi e le primogeniture istituite in passato, o che si facessero in avvenire sopra beni allodiali anche giurisdizionali e feudi ereditari, erano (per l’art. 93 del cod. feliciano) ristretti a 4 gradi, dopo i quali si doveva intendere sciolto ogni vincolo.
Grave era poi la disposizione mantenuta dall’art. 118 del codice feliciano del 1827: che i figlioli e le figlie, ancorché maggiori di 25 e 20 anni rispettivamente, i quali contraessero matrimonio disonorante e ignominioso alla famiglia e parentela, si intendessero, per questo mero fatto, senz’altro diseredati, salvo disposizione contraria degli ascendenti. I loro discendenti decadevano da ogni ragione di succedere nei feudi di qualunque natura (primogeniture, fidecommessi e maggiorati) e da ogni prerogativa della famiglia e se ne doveva devolvere la successione ai prossimiori chiamati e loro successori, cui si intendevano posposti, salvo ai contravventori e ai discendenti, il diritto agli alimenti sussidiari sui frutti di detti feudi, primogeniture, fidecommessi e maggiorati (art. 119).
I contravventori, poi, salvo riabilitazione, erano privati di ogni dignità, carica e impiego di R. Servizio (art. 118).
Tali pene avevano luogo anche quando i matrimoni disonoranti ed ignominiosi fossero contratti da persone sui juris (art.120).
Queste disposizioni rispecchiano chiaramente la mentalità e i concetti del tempo e rivelano l’esistenza di una casta nobiliare gelosa e forte dei suoi privilegi, ancora alla vigilia dell’abolizione dei medesimi (1847-1848). L’antica tradizione iberica perdurava tenace nell’isola, per nulla intaccata dalla trionfale marcia delle nuove idee, che altrove andavano così violentemente reagendo ad un passato ormai volgente al tramonto. Nelle città e nelle campagne la compagine sociale era sempre la stessa: una stretta minoranza di privilegiati, tra cui dominavano le più antiche, potenti e ricche famiglie feudali, sovrastava ad un numeroso proletariato di contadini e di artieri privi di coscienza politica, che dopo le disorganizzate e pressoché incoscienti ribellioni degli ultimi anni del secolo XIX (antipiemontesi nelle città e antifeudali nelle campagne), era stato facilmente domato dalle taglie e dal capestro per tornare alla rassegnata soggezione ai secolari padroni.
La classe media o borghese che, troppo disorganizzata e debole, si era anch’essa invano agitata per avere posti ed impieghi, era tornata alla sue incerte posizioni intermedie tra l’abbiezione del vassallo e del bracciante e la tracotanza del ricco titolato. In seno ad essa gli elementi migliori si facevano faticosamente strada con gli studi per raggiungere gli alti posti della magistratura, dell’insegnamento universitario e dell’amministrazione e miravano all’ambita conquista di un titolo nobiliare che, accrescendo ad essi ed alla famiglia lustro e decoro, li elevasse alla pari della ristretta, potente ed emulata élite di privilegiati. D’altro canto la corte, in quel periodo di reazione e di tormentosa lotta fra il vecchio e il nuovo, incoraggiava apertamente queste forme di devozione e di vassallaggio, appagando le ambizioni di quanti, prostrati ai piedi del regio trono, esponevano le proprie benemerenze per conseguire le agognate concessioni nobiliari. Dalla febbre dei titoli non era immune neppure l’elemento intellettuale poiché, non solo i negozianti che avevano in momenti difficili prestato somme al regio erario; non solo i ricchi agricoltori che avevano esteso la cultura nei loro poderi o piantato un certo numero di ulivi (a termini del regio editto 3.12.1806); o quanti avevano costruito un tratto di strada o un ponte, oppure avversati i francesi e gli angioini; ma anche i professori universitari, gli alti impiegati ed i distinti magistrati, non paghi ben spesso della nobiltà personale derivante dalla carica, enumerando i loro servizi e sottomettendosi a pagare la prescritta finanza, sollecitavano le concessioni del cavalierato, della nobiltà o di un titolo di barone o di conte, anche senza predicato, che fosse trasmissibile ai loro discendenti. I diplomi di concessione consacrano sempre nel loro prolisso tenore tale stato di cose, dando esplicitamente atto delle richieste fatte e dei motivi che ne determinavano l’accoglimento.
Ma questi erano, si può dire, gli homines novi del momento. All’integrità e decoro della casta nobiliare, il cui nerbo era sempre costituito dalle più antiche famiglie, provvedevano le consuetudini. Le norme sui matrimoni disonoranti e indecorosi erano per così dire, l’ultima ratio contro i rampolli degeneri dei titolati e l’uso invalso nelle famiglie feudali e nobiliari, gelose conservatrici dei loro titoli, che i matrimoni stessi si effettuassero rigorosamente con persone di pari grado e condizione sociale, aveva per se stesso forza di legge. Dal secolo XVI in poi era venuta in desuetudine la vendita di feudi a persone a non nobili, praticata su vasta scala nei tempi anteriori in momenti di grande difficoltà dell’erario regio ed era scongiurato il pericolo, già lamentato in un capitolo di corte del parlamento del 1421, che si vendessero feudi ad acquisitori non de paratico ni de seguida de armas (cioè non nobili né cavalieri).
Infatti, ancora nel parlamento 1553-54 undici dei feudatari intervenuti, non essendo decorati di titolo nobiliare, erano singolarmente e semplicemente qualificati magnifich mossen e heretat. Nel seicento vengono pertanto meno tali passaggi per compravendita da un privato all’altro sia pure con assenso regio ed i feudi restano in mano di un circoscritto numero di famiglie feudali (che troviamo ormai pressoché tutte nobili), pur passando facilmente dall’una all’altra di esse per via di matrimoni e di successioni. Le generalizzate forme del feudo improprio, come già si è dimostrato altrove e dell’allodio, agevolavano tali passaggi dei feudi da un casato all’altro per via di matrimonio delle primogenite o eredi feudatarie, con feudatari o nobili di altra famiglia, dando spesso luogo al fenomeno del raggruppamento dei titoli in uno stesso primogenito o erede (stato di fatto protrattosi fino al XX secolo).
Contemporaneamente, nel secolo XVII ha luogo l’altro fenomeno di elevazione di grado dei titoli nobiliari da baronie a contee e da contee a marchesati, corrispondentemente alla riunione dei titoli in uno stesso casato, e al concentramento di vasti possessi feudali. Pertanto da questo periodo in poi i feudi non escono più come in passato dalla cerchia nobiliare e feudale per passare in ricchi mercanti o in famiglie non nobili, come nei secoli precedenti.
Le suesposte concezioni palesano chiaramente nell’isola l’influsso iberico così tenacemente invalso da secoli, che si rivela anche nelle istanze per concessioni nobiliari. Così i richiedenti allegano spesso, tra i motivi in loro favore per ottenere le concessioni, i parentadi con altre famiglie nobili.
L’ordinamento nobiliare italiano approvato con R.D. 21.1.1929, disciplinando nuovamente le successioni nei feudi impropri, ha derogato ai privilegi concessi dalle antiche concessioni sovrane in materia, ispirandosi al principio che i titoli nobiliari restino o rientrino nell’agnazione maschile degli ultimi investiti del titolo. Si è così impedito il secolare passaggio dei titoli feudali trasmissibili per linea femminile, da un casato all’altro, cosa prima frequentissima per via dei matrimoni, per i quali in breve volgere di anni, i titoli originariamente concessi ad una famiglia, passavano successivamente, sia pure previe lettere patenti di regio assenso, in casati diversi dagli originari.
Quindi la successione dei titoli, predicati ed attributi nobiliari per il R.D. 16.8.1926 n.1489, ribadito nell’ordinamento nobiliare citato, ha luogo (art.54) a favore della agnazione maschile dell’ultimo investito per ordine di primogenitura, senza limitazione di gradi (cioè senza limiti nella rimoziorità, mentre anche il rimoto agnatizio maschile prevale sul prossimo femmineo, con preferenza di linea sul grado (cioè la linea retta vince ad inferiorità e a parità di grado sulla collaterale). I chiamati alla successione debbono discendere per maschi (non per femmine) dallo stipite comune, primo investito del titolo. I titoli, i predicati e gli attributi nobiliari non si trasmettono alle femmine né per linea femminile, salvo l’eccezione dell’art. 57. Per quest’ultima eccezione, i titoli concessi, oltre che a tutti i maschi anche alle femmine, spettano alle medesime durante lo stato nubile e non danno luogo a successione, mentre (art.59) i titoli e predicati nobiliari provenienti da femmine, che prima del 7 settembre 1926 (data d’inserzione del decreto nella G.U.), sono legittimamente pervenuti alla loro discendenza maschile, continuano (per un rispetto ai diritti quesiti) a devolversi alla medesima discendenza secondo le norme dell’art. 54.
Però (ultimo capoverso dell’art.59), estinte le linee maschili aventi per stipite comune la femmina intestataria del titolo, questo con gli annessi predicati ritorna, previe lettere patenti di regio assenso (evidentemente ad impedire il passaggio in un nuovo casato per via di matrimonio) all’agnazione maschile della famiglia alla quale apparteneva nel giorno della promulgazione delle leggi abolitive della feudalità (cioè, per la Sardegna, la carta reale 21.5.1836 ed i regi editti 12 maggio e 21 agosto 1838, che autorizzavano le transazioni feudali), osservate le norme del citato art. 54.
I titoli (chiosa lo stesso articolo 59) per le successioni verificatesi dopo l’entrata in vigore del regolamento per la Consulta Araldica, approvato con R.D. 5.7.1896 n.314, si intendono legittimamente pervenuti alla discendenza maschile quando le lettere patenti di regio assenso prescritte dall’art. 31 del citato regolamento siano state emesse prima del 7.9.1926.
Se prima di tale data le lettere patenti siano state richieste nei modi di legge, il rilascio delle medesime potrà tuttora aver luogo con effetto di legittimare la devoluzione dei titoli a favore della suddetta discendenza maschile.
I titoli e predicati (art.60) che, fuori del caso previsto dal primo capoverso dell’art. 57, al 7 settembre 1926 erano pervenuti in femmine nubili, passano dal giorno del loro matrimonio e, se non prendono marito, alla loro morte, all’agnazione maschile della famiglia alla quale la donna appartiene, osservate le norme dell’art. 54 e salvo quanto dispone l’art. 63 (vedi appresso).
Se i titoli e i predicati sono pervenuti a donne già maritate al 7.9.1926, il passaggio all’agnazione maschile delle famiglie donde esse provengono avviene nel giorno della loro morte, restando senza effetto le lettere patenti di regio assenso già date a loro favore per quanto riguarda la trasmissibilità dei titoli ai loro discendenti.
Per l’art. 63, infine, se siano estinte o dopo il 7.9.1926 si estinguono le agnazioni maschili (cioè in mancanza totale di agnati di qualunque grado delle famiglie che, a norma della prima o dell’ultima parte dell’art.59 (citate) avevano diritto alla successione nel titolo, questo può essere rinnovato con atto sovrano a favore di una figlia dell’ultimo investito e della di lei discendenza maschile, sotto condizione che la famiglia di quest’ultima si trovi inscritta nell’elenco ufficiale della nobiltà italiana. Sarà preferita la figlia più anziana di età che, all’atto della vacanza del titolo, abbia già prole maschile, appartenente a famiglia inscritta nell’elenco.
Nella stessa ipotesi di estinzione delle suddette agnazioni (mancando cioè ogni ragione di far valere i diritti di queste), la rinnovazione mediante atto sovrano potrà aver luogo a favore della discendenza maschile dell’ultima donna intestataria del titolo (evidentemente per impedire l’altrimenti facile passaggio del titolo in altri casati), sotto la condizione però che la famiglia di tale discendenza maschile si trovi già inscritta nell’elenco ufficiale della nobiltà italiana (evidentemente come nel caso precedente, in ossequio alle disposizioni prescriventi l’obbligatorietà dell’iscrizione in detto elenco).

Dal testo della legge balza evidente lo scopo di impedire i frequenti passaggi di titoli da un casato all’altro per via della discendenza delle femmine titolari di essi, ed il principio di mantenere i titoli stessi nelle agnazioni maschili, cui trovansi ormai già acquisiti.

Del segnacaso “de” e “dei”: Il prefisso de si incontra frequente nei documenti sardi più antichi per indicare la provenienza originaria della persona dal paese o località al cui nome esso si prepone e spesso, avendo in origine indicato tale provenienza di luogo, è già diventato un gentilizio unitamente al nome cui è preposto. Tale fenomeno si verifica non solo nel caso delle famiglie nobili magnatizie e potenti della Corte dei Giudici sardi i cui membri (distinti coi titoli di donnigellu e donnu), costituivano l’antica nobiltà isolana soffocata più tardi dalla conquista aragonese (i de Unali, i de Kerki, i de Thori (o de Zoli), i de Athen (o de Atzeni), i de Laccon, i de Serra, i de Arcedi), ma anche nei casati più umili dei contadini e degli schiavi.
Spesso accade che il nome di provenienza, originariamente indicante un paese o un luogo, sia diventato ormai un gentilizio cui segue un altro nome preceduto dal segnacaso dei, indicante la provenienza recente del luogo o del paese.
Più tardi il prefisso de si incorpora addirittura col nome del paese o del luogo, formando con esso un tutt’uno (così oggi Deiana, Dettori, Desogus, Dessanai, Dessì, Dolia, Demontis, Deplano, Delogu, Devilla, Deidda). In genere tali nomi, diventati dei gentilizi fondendosi col prefisso de, appartengono a ville e luoghi da tempo distrutti (Iana, Arcedi, Azzeri, Sanai, Olia, etc.). Né è raro il caso che nomi delle stesse ville distrutte, costituiscano cognomi non preceduti dal prefisso de (Achenza, Sollai, Loddu, Cancedda, Castangia, Cherchi).
In altri casi non è chiaro il senso del casato preceduto dal de, poiché sembra indicare, più che una località di provenienza, un gentilizio derivante da un attributo o soprannome o il nome di un ascendente.
Coerentemente alle massime generali adottate dalla Consulta Araldica è dunque evidente che la particella de preposta ad un cognome, non è da sola né può essere considerata, neppure nell’isola, indizio di nobiltà.
Ma la particella dei, secondo le norme già da tempo seguite dalla stessa Consulta e ribadite nell’Ordinamento Nobiliare Italiano (art. 572 c.), può essere preposta di diritto dagli ultrogeniti delle famiglie insignite di titoli primogeniali, al titolo e predicato del primogenito e, se trattasi di più titoli o predicati primogeniali, a quello che fa parte del nome d’uso di famiglia (salvo diversa tradizione familiare). Quando (art. 58) uno o più titoli o predicati nobiliari siano passati per successione femminile in altra famiglia, il diritto di cui al 2° capoverso dell’art. precedente, spetta ai membri della famiglia che ha perduto i titoli, nati prima del passaggio, ed a quelli della famiglia cui sono pervenuti, nati dopo il passaggio.
Il possesso di un titolo feudale (barone, conte, etc.) secondo le decisioni dell’antica giurisprudenza nobiliare sarda anteriori al 1848, non implicava alcun diritto alla nobiltà, che doveva sempre essere conferito con speciale diploma.
Gli ultrogeniti delle famiglie insignite di titoli primogeniali sono nobili di diritto, per una norma già da tempo seguita dalla Consulta Araldica, e ribadita dall’art 57 u.c., dello Stato nobiliare italiano.
Per le norme suesposte, gli ultrogeniti dei semplici cavalieri ereditari possono far precedere al proprio casato la dizione “dei cavalieri”.
Secondo la disposizione introdotta nel citato Ordinamento dello Stato Nobiliare Italiano (art. 5), il titolo di nobile è comune agli insigniti di ogni altro titolo (cioè del titolo di principe, duca, marchese, conte, visconte, barone, signore, patrizio, cavaliere ereditario). Quindi è legittima l’interpretazione che il legislatore intenda con essa conferire il titolo di nobile a quanti hanno diritto ad uno di tali titoli.
Si dà anche il caso che l’ultrogenito di famiglia titolata abbia ottenuto personalmente dal re il titolo spettante ereditariamente ai primogeniti. Nonostante tali rigorose disposizioni, accade di frequente in pratica che agli ultrogeniti delle famiglie feudali si dia senz’altro il titolo di conte, barone, marchese, etc. spettante al solo primogenito, anziché quello di dei conti, dei baroni, dei marchesi, etc.

Elenchi stamentari e loro utilità: Le diverse liste dei membri degli stamenti depositate nel R. Archivio di Cagliari sono utilissime non solo dal lato storico (in quanto fanno conoscere la composizione dei singoli bracci nei diversi tempi), ma anche dal lato araldico poiché possono fornire utili elementi alla genealogia delle famiglie nobili e feudali ed eventualmente preziosi equipollenti di prova, in mancanza dei diplomi originali di concessione rilasciati ai capostipiti delle famiglie stesse. Non sempre infatti coi libri parrocchiali si possono ricostruire completamente le genealogie, per interruzioni o dispersioni di registri, tanto più frequenti quanto più si va indietro nel tempo. Come si è già notato altrove, l’elenco dei nobili e dei cavalieri, compilato nel 1822 dalle varie prefetture dell’isola (con lo scopo fiscale di ripartire i contributi per la missione eseguita allo scopo di rendere omaggio a Carlo Felice nella ricorrenza della sua incoronazione), ha fornito preziosi dati per l’iscrizione nell’Elenco Ufficiale Nobiliare Italiano di molte famiglie nobili sprovviste del titolo originale di concessione. Naturalmente i dati offerti dai registri possono rintracciarsi anche in altri documenti d’archivio (sentenze civili e penali, atti d’investitura, abilitazioni ai parlamenti, atti notarili, procure…)
Procedendo in ordine di tempo e tenendo conto solo degli elenchi più completi, sono da ricordare: una lista dei feudatari al 1485; altra dei cavalieri, nobili e feudatari al 1497; altra di feudatari al 1500; altre dallo stamento militare del 1528, del 1553-54, del 1558, del 1573, del 1627, del 1642, del 1645, della 1^ metà del secolo XVII.
Esse si moltiplicano alla 2^ metà del secolo XVII e sono corredate anche da documenti. Per il periodo austriaco: la lista dei nobili cui fu pagato censo dal 1709 al 1714. Per il periodo sabaudo i numerosi elenchi contenuti nel vol. 54 serie 2° della R. Segreteria di Stato dal 1706 al 1792 e nel volume successivo, nonché l’elenco dei componenti gli stamenti dal 1743 al 1841 (militare, ecclesiastico e reale per i due capi) contenuto nel vol. 4° dell’Archivio dell’amministrazione delle torri del regno.