Ricerche sul regime giuridico della nobilta’ sarda
di Francesco Loddo Canepa
Armamento: Sono note le formule dei diplomi
di cavalierato e nobiltà nonché la procedura seguita nei secoli
XVII e nei successivi per il conferimento dei relativi titoli. Precedeva il
rilascio del diploma di cavalierato, la cartilla de armaçon,
cioè la commissionale regia diretta al viceré (o ad altro illustre
personaggio che lo rappresentava), per armar cavaliere il concessionario. Il
viceré (o chi per lui), con cerimonia solenne in cui non era neppure
dimenticata l’accolade degli antichi tempi, lo cingeva della spada. (…)
Il candidato alla cavalleria si avanzava con la spada alla cintola accompagnato
da due cavalieri (o in mancanza da due persone di qualità) e presentava
la lettera regia all’incaricato dell’armamento che la prendeva dalle
sue mani, la baciava rispettosamente, la posava sopra il proprio capo, dopo
toltosi il cappello, e la consegnava quindi ad altra persona incaricata per
la cerimonia. Il candidato poi si inginocchiava su un ginocchio, mentre quello
che aveva presa la patente la leggeva per intero. Finita la lettura l’incaricato
dell’armamento estraeva la spada e ne dava tre colpi sul candidato (uno
su ogni guancia e un terzo sul capo) dicendogli ogni volta “quereys
ser cavallero?”. Quegli rispondeva: “So es lo que he supplicado
a su Magestad”. Dopo ciò l’incaricato diceva: “Dios
hos haga bien cavallero” e rimetteva la spada nella guaina. Infine
il candidato si alzava, restando compiuta la cerimonia, di cui un notaio redigeva
apposito verbale.
Pagata la finanza d’obbligo ed i prescritti diritti di mezz’annata
e sigillo, il concessionario veniva in possesso del relativo diploma sovrano
che seguito per lo più da quello di nobiltà rilasciato spesso
lo stesso giorno, talora anche a distanza di qualche anno. Durante il dominio
spagnolo e nell’epoca sabauda fino allo scorcio del secolo XVIII, era
consuetudine di descrivere minutamente nel diploma di cavalierato anche lo stemma
gentilizio concesso, che, sotto i Savoia, trovasi anche conferito con diploma
separato. Dalla fine del sec. XVIII in poi si hanno numerose concessioni di
cavalierato e di nobiltà non accompagnate da alcuna concessione di stemma.
Unitamente agli altri privilegi inerenti al titolo di cavaliere, il nominato
acquistava il diritto di fregiarsi delle armi gentilizie portandole nei tornei
e nelle guerre, fregiandone la propria casa, la tomba di famiglia, ed i propri
oggetti personali; inoltre acquistava la facoltà di “deferire
ensem, calcaria et alia aurea ornamenta ad equestrem sive militare gradum pertinentia”.
In vari diplomi nobiliari del secolo XVII è pur compreso l’obbligo
della registrazione entro i quattro mesi dei privilegi concessi, sotto pena
di decadenza. La formula era: “volumus autem atque espresse jubemus
quod antequam hoc privilegio utaris illud in officiis secretarii nostri regestri
gratiarum presentare tenearis ut ibidem premissorum ratio sumatur de quibus
per annotationem dicti secretarii in eodem factam constet”. Seguiva
poi la sanzione: “quod si inter quadrimestre a die date presentis
non adimpleveris, personae seu personis ad quam seu quas predictorum executio
spectet, gratiam hanc nullius robur et valoris esse declaramus”.
Nelle commissioni regie d’armamento a cavaliere era espressa la condizione
che, entro l’anno dalla cerimonia, dovesse il nuovo armato ottenere il
diploma, a pena di nullità: “quod si intra unum annum a die
date presentium (delle lettere cioè d’armamento) a nobis
in forma solita id non obtinuerit, volumus presentem gratiam et concessionem
nostram nullius esse roboris et momenti”.
Che tale fosse la clausola delle cartelle d’armamento nei secoli XVI-XVII
è dimostrato dalla richiesta fatta nel parlamento del Marchese di Bayona
nel 1633: “Avendo S.M. fatto grazia di armare molti cavalieri nel regno
sardo e di concedere molte lettere di nobiltà e poiché quelli
già armati dopo di aver pagato i diritti per i privilegi (tranne alcuni
casi di concessione gratuita), già da un anno aspettavano i diplomi,
si domandava che questi fossero spediti senza indugio, dato che nelle cartelle
de armaçon era limitato il tempo per la spedizione di essi”.
Le suddette formule dei diplomi e l’accennata procedura furono indubbiamente
seguite nei secoli XVII e XVIII e fors’anche nel secolo XVI. In modo alquanto
diverso procedevano le cose nei tempi anteriori, come risulta dai diplomi più
antichi.
I più antichi diplomi nobiliari sardi:
Quelli depositati negli archivi dell’isola (prescindendo beninteso dalle
concessioni feudali) non sono anteriori ai primi decenni del secolo XV. Le loro
formule, che si riscontrano in uso durante tutto lo stesso secolo e nei primi
del successivo, si diversificano da quelle dei diplomi rilasciati dalla cancelleria
spagnola nei secoli posteriori, per tacere delle sabaude che sono pressoché
una continuazione delle spagnole. Nel secolo XV i privilegi di cavalierato e
nobiltà non sono conferiti con diplomi separati, come nel secolo XVII
e nei seguenti fino al 1848; ma, alle persone distintesi particolarmente nel
regio servizio, venivano rilasciati dei privilegia generositatis, di
cui sarà utile esaminare le diverse parti.
Premesso l’esordio che è dovere della maestà regia ricompensare
ed elevare a maggiori dignità ed onori coloro che ex civibus notabilibus
aut antiquis burgensibus et progenitoribus honorabilibus protraxerunt originem
e favorire quelli ai quali presertim meritorum laudumque et virtutum
suffragantur praeconia, si accenna all’esistenza di queste condizioni
nel concessionario.
Si viene quindi al dispositivo con le parole: “Vos…motu quidam
proprio generosum facimus et creamus vosque in generosum attollimus, generosi
quoque titulo et auctoritate decoramus nobilitamus et insignimus…, statuentes
quod vos et filii et heredes seu successores vestri per directam lineam descendentes…in
perpetuum sitis et sint et dicamini generosi et de genere militari in vim et
robur privilegi generositatis presentis et ad militarem honorem gradum singulum
et dignitatem quandocumque volueritis ac voluerint attolli, erigi et promoveri
possitis et possint et eodem militari cingulo decorari”.
Dispone infine il dispaccio che il concessionario goda cum tota dicta prole,
progenie et posteritate…omnibus illis privilegiis graciis…quibus
ceteri generosi (oppure veri etiam et antiqui generosi, et milites)
et persone de paratico…praesertim in dicto Sardiniae regno et civitate
Sasseris (poiché questi primi diplomi riguardano specialmente cittadini
di Sassari) gaudere sunt soliti. Si confronti come esempi il privilegio
a Pietro Cariga di Sassari (1 ottobre 1443), quello del 27 giugno 1444 a Giambattista
Milia, altro del 31 agosto 1439 a Valentino Cabra della stessa città
e, tra i più antichi, quello del 16 novembre 1420 in favore di Pietro
Fenu, pure di Sassari.
Altra variante della formula è che il concessionario goda dei privilegi
quibus milites militari cingulo decorati sive personae militares et de genere
generoso seu de paratico gaudere possunt cum tota…posteritate per rectam
lineam descendentem.
Si ordine infine che il concessionario, i suoi figli e discendenti in linea
retta (non di rado nei diplomi figura l’aggiunta utriusque sexus)
siano ritenuti da tutti per generosi.
Dall’esame di queste formule può trarsi qualche utile osservazione,
sebbene la scarsezza dei documenti (da integrarsi con quelli degli archivi spagnoli)
non autorizzi a conclusioni assolute e definitive. Poche sono infatti le concessioni
nobiliari della seconda metà del secolo XV e scarsissime quelle del XVI
conservate negli archivi della Sardegna.
Il così detto privilegium generositatis dovette avere una portata
più larga che quello di cavalierato (militar) dei tempi posteriori. Poiché
la generositas è attribuita in parecchi dei suddetti diplomi
ai discendenti utriusque sexus del concessionario, identificandola
col cavalierato si dovrebbe accettare l’assurda ipotesi che questo venisse
conferito anche alle femmine discendenti dell’investito. È da ritenere
invece che, mentre il diploma di generosità attribuiva ai soli maschi
la qualità di cavaliere, a questi ed alle femmine conferiva in pari tempo
la particolare distinzione di lignaggio degli antichi generosi (la
generositas in questo senso potrebbe includere l’assimilazione
degli investiti e dei loro discendenti a quegli degli antichi generosi di Aragona
e di Catalogna, vantanti una lunga serie di antenati illustri ed una particolare
distinzione di natali. Essi si riallacciavano ai primi difensori della terra
contro le invasioni arabe e formavano una speciale categoria. La nobiltà
di natali derivanti dalla generositas non sembrerebbe pertanto coincidere
con la nobilitas comunemente conferita più tardi nell’isola
in virtù di speciale diploma, a seguito del privilegio militar. I generosi
infatti in Aragona formavano braccio unico coi militars in contrapposto
ai nobili menzionati separatamente, ed appartenenti ad altro stamento).
Il concessionario e i suoi discendenti d’ambo i sessi acquistavano così
diritto al trattamento delle persone militares et de genere generoso seu
de paratico ed erano ritenuti veri ed antiqui generosi et milites et persone
de paratico, secondo le formule stesse dei diplomi.
Sembra pertanto logico ritenere che in Sardegna nei secoli XIV-XV fosse invalso
l’uso di concedere, di regola, l’antica generositas, cioè
quella forma di nobiltà (includente pure il cavalierato) di cui erano
insigniti i discendenti degli antichi generosi di Catalogna. Più tardi
mutandosi le cose, si abbandonò quest’uso per conferire separatamente
anche in Sardegna i due privilegi di cavaliere e nobile, secondo le consuetudini
già da tempo vigenti nella madre patria.
Non mancano in Sardegna concessioni di cavalierato non accompagnate da quelle
di nobiltà. Esse tuttavia si fecero più limitate già negli
ultimi tempi della dominazione spagnola. Così nei parlamenti del 1688
e 1698, la proporzione dei cavalieri non nobili su quelli nobili fu all’incirca
in ragione da 1 a 5 (il re alla fine del secolo XVIII lamentava l’eccessivo
numero di nobili e cavalieri e raccomandava di diminuire il più possibile
il numero delle proposte per crearne di nuovi). Non manca qualche esempio del
caso inverso, quasi eccezione (almeno apparente) al principio che in Sardegna,
i nobili creati anteriormente al 1848, furono anche cavalieri.
Di alcuni concessionari del secolo XVII, l’Archivio di Stato di Cagliari
possiede infatti i soli diplomi di nobiltà senza quelli relativi al cavalierato
che, secondo la prassi del tempo, avrebbero dovuto precederli. In alcune di
tali concessioni di nobiltà è fatta menzione del titolo di cavaliere
evidentemente già conferito al concessionario con diploma precedente,
mentre in altre non si ha traccia di un precedente conferimento del cavalierato
stesso.
Esempio del primo caso è il titolo concesso a Giovanni Sanatelo oriundo
di Sardegna nel 16-7-1630; esempio del secondo è la concessione di nobiltà
ad Antonio Quesada Riva de Neira (20-5-1679) creato nobile per i servizi resi
alla corona nelle ultime curie (motivazione che assai spesso serviva di base
a conferimenti nobiliari). Della sua qualità di cavaliere, che non risulta
da particolare diploma, non è fatta alcuna menzione in quello di nobiltà,
in cui si accenna solo alla sua claritas natalium. Lo stesso avviene per il
concessionario Gaspare Sillent di Sardegna (16-5-1679), pure creato nobile per
il servizio reso nelle ultime curie. Ciò naturalmente non esclude che
il diploma di cavaliere non abbia potuto essere rilasciato, anche in questi
casi, anteriormente a quello di nobiltà. Probabilmente non ce n’è
pervenuta notizia.
Motivi della concessioni: Erano generalmente
o particolarmente espressi nei diplomi nobiliari i motivi delle concessioni
e cioè i servizi resi dall’investito alla corona, allo stato od
al pubblico in determinate circostanze. Da essi non doveva naturalmente andar
disgiunta la fedeltà alla causa regia. Nei diplomi spagnoli non si fa
particolar menzione di somme offerte al fisco per ottenere i titoli nobiliari
(nel periodo sabaudo la finanza corrisposta per la concessione di diplomi di
cavalierato e nobiltà era di Ls. 3750- oppure 6000 di Piemonte- tranne
che, per motivi particolari del concessionario, non venisse accettata anche
somma minore), espresse invece, sempre che fossero corrisposte, nei diplomi
sabaudi. Negli uni e negli altri tuttavia, quando non si tratti (caso assai
poco frequente) di concessione motu proprio, si leggono le seguenti
formule (espresse naturalmente in lingua italiana, nei sabaudi più tardi):
“Supplicatione tua benigne suscepta” e “Fuit
tui pro parte humiliter supplicatum ut privilegium concedere dignaremur”
chiaramente indicanti che il privilegio stesso veniva elargito in accoglienza
delle umili istanze dell’interessato, presentate al sovrano dopo l’armamento.
Le somme in parola vanno bene distinte dai diritti di mezz’annata e sigillo
che, salvo speciali dispense totali o parziali, si pagavano già sotto
la Spagna per la registrazione ed il ritiro dei diplomi, come si evince chiaramente
da quelli del secolo XVII e dai posteriori.
Si è altrove accennato a concessioni nobiliari fatte dalla corona in
ricompensa di benemerenze e imprese belliche o per sussidi pecuniari offerti
in tali imprese. Di questa natura furono quelle rilasciate (in occasione della
cacciata dei francesi dall’isola nel 1793) a Giuseppe Marza di Ozieri
(dipl. 3.12.1793); a Giorgio Marcello di Selegas (14.1.1794); ad Antonio Orrù
di Sardara (12.9.1799 per le benemerenze acquistate dal figlio Raimondo); all’avv.
Tommaso Cabras luogotenente delle Torri in Gallura (11.5.1796).
Meritano però di essere ricordati in tempi più antichi alcuni
dei più fulgidi esempi di concessioni nobiliari per fatti d’armi
e benemerenze belliche acquistate dai concessionari, sia dentro che fuori dell’isola.
Così al cav. Francesco Esgrecho fu concessa la nobiltà nel 6.4.1615
per le benemerenze dell’avo Francesco Capitaneus cohortis peditum
in espulsione francorum qui eamdem civitatem Sassaris oppressam in anno 1528
habebant.
Nicola (de) Quesada fu insignito della nobiltà nel 14.3.1582 perché
sua sagacitate atque summa diligencia consecuta fuere vincula ac compedes
bannitorum de Monteagudo…et fuit in tuto praedicta incontrata
Bernardino Puliga nel 1.9.1593 fu investito del cavalierato per l’opera
prestata in recuperando prado et liberandis hominibus villae de Siniscola…e
manibus turcorum qui ipsam in mense februari 1581 invaserant e quibus multi
capti et occisi remanserunt…cum suae maximo vitae…pericolo.
Juan de la Camara y Manno di Sorso nel 26.2.1647 fu creato cavaliere per i servizi
resi belli Flandriae in classeque regia ac denique in Hispania copiis cum
magna satisfactione.
Don Francesco Pes di Villamarina ebbe il marchesato con diploma 27.2.1711 per
l’opera prestata e per le spese sostenute in reductione Regni Sardiniae
ad nostram regiam obedientiam (di Carlo VI d’Austria), signanter in invasione
per inimicos tenta in Terranoba”.
Giovanni Maria Ansaldo di Sardegna ebbe nel 1605 il cavalierato per le benemerenze
dell’avo paterno Francesco Ansaldo in Italia e per quelle in expeditionibus
Argerii et Tuneti quaeque tulit Joannes Hieronimus Ansaldo, padre di lui.
Stefano Sussarello ebbe il cavalierato nel 31.5.1539 maxime pro defensione
istius regni nostri Sardiniae contra Turchos, saracenos, anche con pericolo
della vita.
Ma in gran parte le concessioni nobiliari erano accordate (come le onorificenze
di oggi) a persone pervenute ad alti gradi dell’esercito, della magistratura,
della burocrazia o dell’insegnamento universitario. Ai magistrati della
Reale Udienza spettava di diritto la nobiltà personale e la qualifica
di Don ad essa inerente. Né mancarono, specie in favore di ecclesiastici,
di professori e di funzionari, privilegi di concessione della nobiltà
personale, distinta dalla progressiva, in quanto, non essendo essa trasmissibile
agli eredi, beneficiava soltanto alla persona e finiva con la sua morte.
È da ricordare a questo riguardo che per il R. Editto 24.6.1823 sulla
pubblica istruzione in Sardegna, si concedeva la nobiltà personale a
quei professori di legge che avessero durato 25 anni nella carica, e cioè
il titolo e il grado di giudici della R. Udienza e che ai professori delle altre
facoltà si davano le onorificenze corrispondenti. I professori di legge
che attendevano esclusivamente all’impiego raggiungevano tale onorificenza
dopo 20 anni.
Exequatur ai diplomi nobiliari: Non era
sufficiente che il concessionario venisse in possesso dei diplomi nobiliari,
ma si richiedeva che essi venissero presentati alla R. Udienza di Sardegna per
l’exequatur a pena di inefficacia. Tale norma, di portata generale,
si estendeva a tutte le provvisioni, le patenti ed i privilegi provenienti da
fuori regno, i quali non diventavano esecutivi senza il predetto exequatur.
È da credere che tale principio sia sorto con l’istituzione del
Supremo Tribunale dell’isola (1564). Anteriormente, le carte e i privilegi
reali, muniti sempre di per se stessi dell’esecutoriale sovrana, venivano
presentati, a cura dell’interessato, al viceré, od anche al procuratore
reale (se si trattava di provvedimenti d’indole patrimoniale), e l’uno
dei due, secondo i casi, dopo ascoltata debitis reverentia et honore
la lettura fattane in sua presenza ad alta voce da un notaio di curia, si dichiarava
promptus et paratus regiis obbedire mandatis. Fino al 1682 non esistevano
registri speciali di exequatur e gli ufficiali regi si limitavano ad
apporre nota di esso sugli originali presentati e ritirati dagli interessati.
Tuttavia per ignoranza o per incuria dei loro antenati, i discendenti dei concessionari
di titoli nobiliari trovavansi non di rado in possesso di regi diplomi non muniti
di exequatur, che incorrevano sempre nell’impugnativa del fisco a sensi
delle leggi patrie.
Resta da accennare ad alcuni speciali casi in cui i diplomi furono presentati
per l’exequatur allo Stamento Militare anziché al viceré
o alla Reale Udienza. Così i tre fratelli Ansaldo, Giovanni Maria, Francesco
e Gavino, creati cavalieri con distinte patenti del 3.10.1605, sia per i loro
meriti, che per quelli acquistati dal nonno paterno Francesco nella spedizione
di Algeria e di Tunisi e dal loro padre Girolamo Ansaldo, presentarono nel 20.3.1606,
per l’exequatur i loro diplomi allo Stamento Militare del Capo di Sassari
e di Logudoro convocato et congregato (nella chiesa di Santa Caterina della
città) pro negotiis et causis ad dictum stamentum militare tangentibus.
La procedura fu identica a quella seguita in tempi passati presso il viceré
o il procuratore reale. Lette le patenti dal notaio di curia, i membri dello
Stamento, dopo averle ascoltate con reverente attenzione, si dichiararono pronti
Sacrae Catholicae Regie Magestatis obbedire mandatis e ad accogliere i nominati
in seno all’assemblea.
Privilegi dei cavalieri e nobili: Sottratti
alla giurisdizione ordinaria del veghiere al pari dei loro servi e familiari,
erano soggetti direttamente a quella del Viceré e dei governatori dei
due capi. Tranne che per i delitti di falsa moneta, sacrilegio e sodomia erano
giudicati da un Consiglio di Pari. Inoltre si applicavano loro determinate
pene in sostituzione di certe altre vigenti per i plebei. Così, alla
corda veniva sostituita la mannaia, la deportazione alla pena di morte, la relegazione
a quella del remo. Potevano liberarsi con denaro dalle ingiurie loro fatte da
questi, erano punite più gravemente che quelle arrecate a persone di
bassa condizione. Potevano portare armi, erano esenti dalle torture (tranne
nei delitti più gravi), non potevano essere carcerati per debiti civili,
neppure in forza di carta di terzo. Come gli ecclesiastici non erano
soggetti a certe contribuzioni. La citazione nei loro riguardi era nulla se
non era fatta cum cartello, cioè col termine di 26 giorni.
Erano considerate ingiurie lievi quelle verbali fra persone della stessa condizione
purché non nobili e solo per esse si procedeva a querela di parte anziché
d’ufficio; per le parole ingiuriose in pubblico il giudice poteva scegliere
tra il carcere e la pubblica ritrattazione secondo la qualità delle persone,
essendo ristretta evidentemente la seconda ai non nobili.
Anche nelle ingiurie più gravi, nei delitti di diffamazione, di concubinato
nei fatti costituenti sfregio, danneggiamento e nelle percosse, la pena era
sempre ragguagliata alle qualità delle persone e naturalmente minore
per quelle come i nobili e i cavalieri, di più elevata condizione sociale.
Infine, le persone appartenenti allo Stamento Militare, i laureati, come pure
le donne, non potevano essere assoggettati alla pena della galera, ma nel caso
di condanna, doveva essere proporzionata a tale pena quella del carcere.
I nobili che venivano condannati al presidio fuori regno dovevano essere tradotti
al Castello di Villafranca come già si praticava, a sensi dell’art.
23 del regolamento 29.8.1755 (Istruzioni di Carlo Emanuele III al viceré).
Tale pena del presidio, dentro e fuori regno, fu tuttavia abolita col R. Editto
13 Marzo 1759 e sostituita da quella del carcere o della catena a tempo, secondo
le circostanze del delitto e la condizione del delinquente. Il Codice
feliciano (art. 1708) mantenne intatta tale ultima disposizione.
Questi particolari privilegi venivano a cessare dopo la fusione della Sardegna
con gli stati continentali (30.11.1847) e con l’estensione all’isola
delle leggi piemontesi (codice albertino, civile e penale del 1839) avvenuta
in data 5.8.1848. Abolita così la vecchia legislazione sarda e proclamato
dallo Statuto il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla
legge, i nobili, i cavalieri e i feudatari, pur conservando i loro titoli in
virtù delle antiche concessioni, vennero a perdere le franchigie ad essi
annesse.
I cavalieri, i nobili, i feudatari che avevano il diritto di intervenire alle
sedute parlamentari e darvi il loro voto, erano pure ammessi a votare per procura
e sono numerosissimi gli atti notarili dei membri dello stamento per nominare
all’uopo i loro rappresentanti. Nel parlamento di Giovanni Coloma (1575)
era vietato che essi tenessero per procura più di quattro voti ciascuno.
Pertanto, nel Parlamento del Duca di Gandia del 1615 essi, con la motivazione
che il provvedimento ridondava a danno degli assenti, i quali per le difficoltà
del viaggio e per le spese non potevano concorrervi, chiesero che la rappresentanza
fosse ammessa senza limitazione di voti (anche per la difficoltà di trovar
persone cui commettere il loro voto) come si praticava prima della limitazione
sancita in quel parlamento. Ma sebbene il viceré avesse concesso che
ogni militare potesse disporre oltre che del voto proprio, di altri sei voti,
il re prescrisse rigorosamente che si osservasse la disposizione del parlamento
del Coloma.
Nello stesso parlamento del 1615 si chiese dai tre ordini che fosse precisata
l’età dei membri dello Stamento Militare ammessi al voto, poiché
si era usato in passato di ammettervi anche persone dell’età di
16 anni. Il viceré ammise che potessero votare a 18 anni (a 24 anni compiuti
per gli uffici). Ma il re modificò la prima parte intendendo che non
fossero ammessi a votare prima dei 20 anni. In quel parlamento fu pure proposto
e approvato che non fossero ammesse ai parlamenti se non persone forestiere
che vi avessero fissato stabile dimora o che appartenessero a regno ove in simili
atti fosse ammesso qualche sardo. Il viceré consentiva facendo eccezione
per quanti appartenessero alla corona d’Aragona o fossero procuratori
dei baroni assenti. Ma nel parlamento del 1633 si approvò che nessun
forestiero anche se suddito del re, fosse abilitato allo stamento.
Nello stesso parlamento fu proposto e approvato che non si potessero dare le
procure che a rappresentanti insigniti del cavalierato ad eccezione dei procuratori
dei signori viventi negli stati di terraferma e posti al governo dei loro feudi,
i quali potevano entrare nello stamento pur non essendo militars.
Circa le abilitazioni era stabilito che gli stamentari abilitati in due corti
successive, non avessero bisogno di altra abilitazione.
I feudatari e i nobili (non i cavalieri) erano poi esclusi dal reggimento della
città di Cagliari ostandovi i privilegi concessi alla medesima. Questo
divieto includeva in origine anche i cavalieri, contro cui però non esistevano
i motivi di incompatibilità riscontrabili a riguardo dei primi, a pregiudizio
dei quali la città possedeva alcune franchigie (provvisione di frumento,
carni, etc…). Inoltre, l’influenza di quei magnati e la loro potenza
economica avrebbe assicurato ad essi una forte preponderanza in seno al consiglio.
In seguito alla richiesta formulata nel parlamento del 1510 ed a prammatica
regia del 14.4.1511, i cavalieri furono ammessi limitatamente al reggimento
della città, ferma restando l’esclusione per i nobili ed i feudatari,
in analogia ai privilegi della costituzione barcellonese.
Per la città di Alghero fu stabilito che annualmente nel giorno di S.Tommaso
(21 dicembre) dovessero eleggersi 5 probi uomini proceres in juratos vel
consules; unum de generosis sive militibus alium de civibus, alium de mercatoribus,
alium de ministerialibus et alium de agricoltoribus. Ma più tardi,
con carta del 23.11.1363, data la mancanza in Alghero di persone generose,
fu abolita la disposizione per la quale uno dei consiglieri doveva essere scelto
fra esse.
Anche l’ufficio di vicario della suddetta città era per antico
uso concesso solo a persone di genere militare o generose. Con carta
30.9.1444 fu stabilito che, essendosi per le circostanze di guerra trascurata
la consuetudine in parola, tale carica non potesse darsi se non a persone probe,
onorate e capaci, designate sei mesi prima della decadenza del vicario in carica.
La nobiltà infine dava diritto a certe onorificenze (come alla concessione
della Croce di Giustizia dei SS. Maurizio e Lazzaro), purché essa esistesse
per quattro quarti nel postulante.
Quanto alla nobiltà feudale, il codice feliciano (art. 315) mantenne
ancora il privilegio sancito nei Capitoli di Corte e dalla Carta Reale in data
30.1.1689, che cioè la primogenitura vigente nei feudi, per immemorabile
consuetudine, si intendesse sempre regolare anche in concorso di donne, se esse
fossero (benché in difetto di maschi), chiamate dalla concessione feudale,
eccetto che diversamente si fosse provveduto o dalla stessa concessione, o per
disposizione dell’investito del feudo, il quale o in virtù della
stessa concessione o a termini di legge, avesse la facoltà di disporre
e prescrivere l’ordine di successione tra le persone chiamate e comprese
nell’investitura.
Tutte le cause di militia, nelle quali uno pretendeva di provare d’essere
cavaliere o nobile o di competergli altro titolo onorifico, dovevano essere
istruite davanti alla R.Udienza, ma dopo essere assegnate a sentenza diventavano,
per la decisione, di competenza del Supremo Consiglio di Sardegna a sensi del
Regio Biglietto 3.12.1732 (art. 481 cod. feliciano). Il Supremo stesso poi inviava
i suoi voti alla R.Udienza perché profferisse la sentenza in conformità
dei medesimi (art. 481 e 474).
Dalle sentenze definitive le quali fossero profferte contro i nobili e i cavalieri,
secondo la procedura speciale per essi sancita dall’art. 2257 del codice
feliciano, poteva solamente il R.Fisco supplicare trattandosi di delitti che
recassero di loro natura infamia o tali che disdicessero al carattere di cavaliere
(carta reale 16.7.1642 e art. 2277 stesso codice).
Per l’art. 21 del regolamento 29.8.1755 i nobili delinquenti nell’esercizio
di qualche impiego, dato che avevano col giuramento inerente all’impiego
rinunciato al proprio foro, dovevano essere giudicati dai giudici o tribunali
da cui l’impiego dipendeva e equiparati a tutti gli altri impiegati non
nobili, che avessero commesso uguali mancanze.
Però i cavalieri imputati di delitto nell’esercizio di impiego
(come ad es. di reggitore) erano giudicati dal R. Consiglio senza l’intervento
dei militari per la carta reale 29.7.1739.
Da una carta dell’archivio comunale di Baghero in data 27.5.1340 apprendiamo
che, quando fosse presente in Sassari il governatore, questi, ad esclusione
del vicario, doveva giudicare i nobili civilmente e criminalmente nonché
i decorati militari cingulo ed i loro familiari: assente il governatore,
il vicario doveva giudicare costoro soltanto civilmente e per eccessi criminali
limitarsi a farli arrestare, pur potendo giudicare i loro familiari, commensali
ed i seguiti (continuis), anche se persone generose. (Cfr. Era: Le
carte del comune di Alghero, n. 20 e carta n. 32 del 27.6.1355 per cui
dal giudizio del vicario o del suo luogotenente sono esclusi i generosi.
Con carta 15 marzo 1399, il re ordina al governatore di non intromettersi nelle
cause civili di primo grado ed in quelle criminali degli abitanti di Cagliari
delle quali ultime avrebbero dovuto giudicare i consiglieri ed i probi uomini,
ammenochè non si fosse trattato di crimini in cui la giustizia avrebbe
potuto essere sovvertita per la nobiltà e potenza degli accusati,
spiegando che per nobili e potenti si sarebbero dovuti intendere solo
i baroni e le altre persone di grado nobile e militare).
A sanzione del dovere dei padri di famiglia specialmente nobili per la conveniente
istruzione dei figli, era prescritto che qualora avendo un patrimonio sufficiente
non vi provvedessero da sé e persistessero in tale condotta anche dopo
amichevole ammonimento del viceré, si nominasse tra i parenti un curatore
speciale per la educazione dei figli a spese del padre, dichiarando questi da
ogni pubblico ufficio. Era probito poi ai nobili dei villaggi di collocarli
presso famiglie di condizione molto inferiore alla loro, quando avessero i mezzi
per collocarli in un collegio.
Ai benestanti che mandassero i figli a studiare nei collegi era concessa poi
l’esenzione personale a vita dalla giurisdizione feudale e la prerogativa
che, al pari dei nobili, andassero soggetti al magistrato regio tranne che per
il pagamento dei diritti feudali.
I privilegi che i cavalieri e i nobili avevano in Sardegna trovano riscontro
in quelli che godevano in Spagna. Come si rileva dai testi catalani e spagnoli,
anche là non erano soggetti alle pene dei plebei per quanto grandi fossero
i delitti commessi; non potevano essere torturati se non per sodomia, lesa maestà
o eresia. La cavalleria era poi incompatibile con l’esercizio della mercatura.
Anche in tutte le controversie che si riferiscono ai privilegi e alle esenzioni
dei cavalieri e nobili, dai tribunali e dalle parti contendenti, è fatto
continuo riferimento al diritto catalano cui si ispiravano la giurisprudenza
e la consuetudine di Sardegna nella prassi quotidiana. Ne sono un esempio gli
atti della lite tra i discendenti di Gemiliano Serra di Sorgono creato generoso
da Ferdinando il Cattolico (con diploma 20 novembre 1480) che fu poi confermato
(nel 25.4.1538) da Carlo V in persona del figlio Leonardo, e l’arrendatore
delle rendite di quel paese, pretendente dai Serra il pagamento di alcuni tributi
reali e personali, da cui essi si asserivano esenti in virtù dei loro
privilegi nobiliari.
Abusi dei cavalieri e nobili e dei titoli nobiliari:
Non sembra poi che i cavalieri fossero sempre, almeno nell’interno dell’isola,
modelli di virtù e di ordine sociale. Non mancano processi criminali
contro di loro per omicidi, rapine e falsa moneta anche nel secolo XVIII e XIX.
Una carta reale del 25.5.1737 ordinava di procedere con tutto il rigore della
giustizia, contro quei cavalieri, specialmente del capo di Sassari, che prendevano
parte a furti ed omicidi o proteggevano i banditi ed i facinorosi. Di vari processi
contro i nobili intentati per delitti di varia natura si ha notizia nell’abbondante
raccolta delle cause penali della R. Udienza e nelle sentenze dello stesso archivio,
emanate da quel magistrato. Sono pure note le turbolenze della nobile e temuta
famiglia dei Delitala di Nulvi favoreggiatrice dei banditi del capo di Sassari
forse anche per ragioni politiche. Negli ultimi mesi del 1735 il viceré
dovette così ordinare una spedizione di truppe in quel comune, centro
di banditismo, capeggiato, come dice lo stesso viceré, dai nobili del
luogo.
Anche la villa di Tempio era afflitta e funestata da questa forma di banditismo
capeggiata dalla nobiltà ed era indicata dal viceré come centro
pericolosissimo di delinquenza, essendo i cavalieri del luogo essi stessi dei
banditi in corrispondenza anche coi ribelli corsi. Oltre la ben nota e quasi
leggendaria Donna Lucia Delitala va pure ricordato un Don Antonio Delitala Cubeddu.
Nel dispaccio viceregio del 17.11.1736 si citano come capi di banditi i cavalieri
Misorro di Tempio, Delitala di Nulvi, Giovanni Pietro Mella o Mela di Sassari,
e Giovanni Tedde.
Turbolenze e fenomeni del resto non peculiari alla Sardegna che ricorda assai
debolmente quanto su vasta scala avveniva già nella penisola iberica.
È noto come la Castiglia fosse “teatro nel sec. XV, d’una
così spaventosa lotta dei nobili fra loro e contro le città, di
tutti contro la sovranità e le leggi, che disordini, congiure, violenze,
sfide, tumulti, incendi, ruberie e omicidi riassumono tutta la disgraziata storia
di quei tempi. Se nelle città le vie erano trasformate in campi di battaglia
tra le fazioni, i signori si disputavano dappertutto le terre, le fortezze e
l’influenza con le armi come facevano in Andalusia, il Duca di Medina
Sidonia col Marchese di Cadice e il Conte di Cabra con Don Alfonso d’Aguilar
sino al punto di devastarla e spopolarla, mentre la Vecchia e la Nuova Pastiglia
erano interrorite da un brigante impadronitosi del Castello di Castromeno”
(Savelli, Storia di Spagna).
Del grave fenomeno, del resto non nuovo nell’isola, si preoccupa anche
il R. Regolamento 12.4.1755 stabilendo, al n. 22, che se i nobili o i cavalieri
proteggessero ladri, banditi o malviventi, il viceré li chiamerebbe a
Cagliari ovvero a Sassari (se di quel capo), e li farebbe stare in stato d’arresto
finché consegnassero alla giustizia i malfattori protetti. Se poi si
cominciassero a formare fazioni o partiti, se ne chiamassero i capi per tenerli
in arresto finché non avessero fatta la pace con la parte contraria e
data ragguardevole cauzione di non commettere offesa o danno.
Un controllo sulla condotta dei nobili doveva poi celare la disposizione che
i titolari e i nobili di Cagliari, quando si assentassero dalla città,
ne chiedessero licenza al Viceré e nel ritorno dovessero a lui presentarsi;
che quelli di Sassari, prima di partire dalla città si portassero da
quel governatore per licenziarsi e anche al loro ritorno per visitarlo. Che
questi poi dovesse a sua volta rendere ai medesimi la prima visita per augurar
loro il buon viaggio e la seconda per congratularsi del loro ritorno.
Il regolamento 12 aprile 1759 accenna inoltre nel §20 ai favoritismi usati
verso i membri dello Stamento Militare tra i quali si trovavano anche, come
se ne deduce, dei banditi e facinorosi. I pari, nei giudizi penali, ne minoravano
arbitrariamente la pena e l’avvocato fiscale regio non appellava dalle
sentenze a loro carico. A ciò aveva tentato di rimediare la carta reale
27.5.1741, la cui osservanza si raccomandava particolarmente al viceré
nel citato §20.
Poche disposizioni troviamo nei documenti del XV e XVI secolo a sanzione dell’abuso
dei titoli nobiliari e feudali. Né molto di più troviamo in tempi
più recenti. La carta reale del 30.6.1636 sancisce provvedimenti contro
quelli che vantano abusivamente i privilegi di cavalierato e di nobiltà.
Nell’Archivio di Cagliari troviamo alcuni fascicoli di processi contro
persone colpevoli di aver abusato dei titoli di nobile e cavaliere, i quali
solo poteva assumere chi avesse riportato le necessarie patenti passate all’exequatur
o chi dimostrasse che egli o i suoi antenati erano stati riconosciuti tali
in due corti successive, sotto le sanzioni penali provocate ad istanza dell’avvocato
del fisco.
Ed invero il fisco si mostrava più che zelante nel chiedere l’esibizione
dei documenti e la prova dei titoli a coloro che li assumessero o si facessero
qualificare pubblicamente cavalieri e nobili. Non era raro specialmente il caso
che semplici cavalieri abusassero del titolo di nobile e dell’inerente
qualifica di Don e che il fisco li riducesse nei limiti dei loro diritti dopo
una diffida legale ed un opportuno atto di sottomissione. In tutte le controversie
del genere, l’avvocato fiscale esigeva la prova piena della nobiltà
e cioè o i titoli originali passati all’exequatur, o la prova legale
dell’abilitazione in due corti successive a favore degli antenati dell’interessato,
mostrandosi difficilmente disposto ad ammettere equipollenti.
I Domicelli (Donzells): Secondo il Bleye
(Manual de historia de Espana) chiamatasi Donzello o Scudiero (escudero
o doncel) il figlio del nobile che non era stato armato cavaliere. A questa
opinione si accosta il Pinna (Magistrato Civico di Cagliari) secondo il quale
tale titolo conferivasi ai figli dei feudatari, dei nobili e dei cavalieri ed
erroneamente attribuivasi talora, come sinonimo di cavaliere, a chi era già
investito della dignità equestre. Sembra troppo generica e non esauriente
la prima affermazione, in quanto non risulta se tale appellativo si desse al
figlio del feudatario in quanto era tale, oppure in quanto era figlio di un
cavaliere primo investito del titolo.
Nell’opera del Bosch (Titols de honor de Catalunya) si legge: Los
donzells son aquells que no son armats cavallers, si no son fills y descendents
dels cavallers armats de manera que lo quis arma y obte le privilegi, es propriament
cavaller, sos descendents donzells.
E’ da ritenere che così avvenisse realmente nella prassi giuridica
del tempo, rispecchiata dall’enunciato del Bosch. Per quanto riguarda
la Sardegna, l’uso assai frequente del titolo di Donzell dato
agli stamentari negli atti dei parlamenti del secolo XVI giustificherebbe l’applicazione
di tale massima anche nell’isola: il primo armato in virtù del
diploma o delle commissioni regie, sarebbe propriamente il cavaliere; i suoi
discendenti, cavalieri di diritto senza necessità dell’armamento,
sarebbero i donzells.
Come risulta dagli elenchi e in genere dagli atti parlamentari, il titolo di
donzell non è generalmente accompagnato dalla qualifica di Don.
Ciò indica chiaramente che esso si riferisce alla qualità di cavaliere,
non a quella di nobile.
Il titolo di donzell non si legge ormai più negli elenchi ufficiali
degli intervenuti ai parlamenti del secolo XVII, come rilevasi dagli atti parlamentari.
Invece se lo attribuiscono ancora frequentemente nel sec. XVII molti membri
degli stamenti nelle procure rilasciate ai delegati per rappresentarli alle
sedute, procure le quali trovansi normalmente allegate agli atti citati, in
quanto erano prese in esame dagli abilitatori per decidere sulla validità
dei titoli presentati. In essi il titolo di donzell non è di regola accompagnato
né dalla qualifica di Don né da quella di cavaliere.
Nel secolo XVIII, e posteriormente, non troviamo più il titolo di donzell
nei documenti ufficiali, ma soltanto i titoli di cavaliere, nobile e
la qualifica di Don.
Carattere non nobiliare degli uffici patrimoniali in
Sardegna: In Sardegna non troviamo concessioni di uffici, di emolumenti, diritti
patrimoniali o scrivanie che di diritto nobilitassero i possessori. Salvatore
Lostia di Santa Sofia, che ottenne i proventi della R. Tappa di Insinuazione
di Cagliari con atto 15.1.1744, non fu creato nobile e cavaliere che in
virtù del diploma regio 10.12.1767, di per sé stante e indipendente
da quel possesso. La Tappa di Insinuazione di Cuglieri, appartenente
a Don Pietro Vivaldi Trivigno Pasqua Duca di S.Giovanni, alienata a Don Carlo
de Quesada nell’8.2.1834, non conferisce al possessore i titoli feudali
già concessi coi feudi di Cuglieri e Scano (rispettivamente Contea e
Viscontado). I Sanjust ricevono i titoli feudali di Tuili e Neoneli come compenso
della retrocessione al patrimonio regio delle scrivanie della Luogotenenza
Generale, della R. Cancelleria e R. Udienza, il cui acquisto non nobilitò
certo il loro dante causa e cioè certo Giambattista Gabella, acquisitore
di esse nel sec. XVII. Così pure Melchiorre Garcet ottenne il titolo
di nobile e la concessione di 200 scudi annui per tre vite col titolo di governatore
del Goceano, per un triennio, dal viceré marchese di Bayona, per la rinunzia
alla scrivania della Luogotenenza Generale dei capi di Cagliari e Gallura, di
cui era proprietario, fatta al sovrano. Prova ben evidente che tale possesso
non era valso a conferirgli la nobiltà.
Anche le scrivanie della R.a Proc. del capo di Cagliari e Gallura, concesse
in enfiteusi nel 7 maggio 1445 a Giacomo Caxa e passate poi successivamente
da questi ad Antonia Alagon, a Francesco Sellanti (nel 1547), poi al notaio
Pietro Sabater, prima di venire in mano di Michele Cervellon, marchese de las
Conquistas (1714), non avevano nobilitato tali possessori.
Lo stesso caso del Garcet possiamo citare per Pietro Abrich il quale, rinunciando
alla scrivania del Consolato di Cagliari (che aveva a vita) a favore di S.M.,
ebbe da questa il titolo di nobile e cavaliere e 50 ducati annui di pensione
vitalizia sopra il diritto di peschiera di Cagliari.
E’ però da ricordare che l’editto 15 maggio 1738 stabilente
in Sardegna gli Uffici di Insinuazione (seguito dall’editto 12.2.1743)
concedeva agli insinuatori, per speciale privilegio, la esentazione dai carichi
personali unitamente al titolo onorifico di Segretario del Re e di Consigliere
perpetuo, delle città e ville di loro residenza. Prescriveva poi
che si dovessero confermare agli insinuatori le armi gentilizie antiche e moderne
delle loro famiglie; che non avendole essi, si sarebbero accordate senza la
corresponsione di alcun emolumento.
Queste concessioni onorifiche tuttavia non implicavano alcun conferimento di
titolo nobiliare, sebbene tali armi fossero concesse anche per i loro discendenti.
Tale è ad esempio la concessione delle armi fatta al citato Lostia Salvatore
acquirente dell’Ufficio di Insinuazione di Cagliari. Egli fu creato cavaliere
e nobile, come si è visto, con diploma posteriore del 10.12.1767. Tale
è anche il caso di Giuseppe Delrio che, come acquirente della Tappa di
Insinuazione di Bosa, ebbe le armi gentilizie per sé e per i discendenti
maschi agnati a tenore dello stesso editto 12.2.1743.
Tuttavia, come si è già notato altrove, l’elemento patrimoniale
era tutt’altro che estraneo al conferimento di titoli nobiliari, anche
per le quotidiane strettezze del fisco, né mancano esempi di titoli feudali
elevati di grado, in corrispettivo di somme offerte alla cassa regia. Così
nel 1638 si ordina a Don Ambrogio Martì, depositario della rendita del
patrimonio regio, di pagare per sussidio a Don Giovanni d’Austria che
si trovava a Napoli, e per le sue milizie spagnole, L. 1529.10.2, dal deposito
delle rendite delle baronie di Galtellì e di Orosei, da lui ricevute
in conto dei 111.000 reali dovuti per lo titol de marques que Sa Magestat
ha fet merced al senor que sera de dita baronia. Più tardi le rendite
di quel feudo furono sequestrate per rimborso di parte di quanto avevano offerto
Don Antonio Manca y Guiso y Don Gavi de Cardona, per la grazia del suddetto
titolo (per raho de la merced del titol de marques que se lis ha fet).
Ragioni patrimoniali determinavano anche la concessione a enti e persone singole,
della facoltà di disporre di qualche cavalierato e nobiltà (purché
in favore di persona idonea), come corrispettivo di oneri assunti dalla regia
cassa verso gli stessi enti e persone. Un cavalierato ed una nobiltà
si era soliti dare al predicatore del parlamento perché ne traesse, cedendolo,
il personale profitto di 600 scudi e più. Così i titoli nobiliari
diventavano talora (nell’epoca spagnola) qualche cosa di simile alla moneta,
in quanto servivano ad estinguere impegni economici contratti dal fisco, ferma
restando, è da credere, l’approvazione sovrana circa la persona
dell’investendo.
Matrimoni dei nobili: Disposizioni speciali
troviamo riguardo al matrimonio dei nobili. Per i non nobili, in mancanza di
convenzione o patto espresso, si intendeva di diritto contratta fra i coniugi
la comunione dei beni; non si intendeva però contratta tra persone che
al tempo del matrimonio fossero entrambe, od anche una di esse, nobili (art.
174, cod. feliciano).
Per mantenere poi il lustro delle famiglie di antica e generosa nobiltà
era stabilito che, qualora i membri di esse contraessero matrimonio inconveniente
ed indecoroso, non solo fossero privi di essere ammessi alla Corte, ma
sulle istanze dei parenti, dovessero punirsi con le pene economiche proporzionate
alla qualità della mancanza (art. 1863 cod. feliciano). La R. Udienza,
o la R. Governazione nel capo di Sassari, oltre a punire le persone che contraessero
matrimonio disonorante o ignominioso anche con pene arbitrarie ed economiche
era incaricata di impedire i matrimoni capricciosi, inconvenienti e contrari
alla pace delle famiglie, se pure non ignominiosi, con provvedimenti e pene
opportune.
I fedecommessi e le primogeniture istituite in passato, o che si facessero in
avvenire sopra beni allodiali anche giurisdizionali e feudi ereditari, erano
(per l’art. 93 del cod. feliciano) ristretti a 4 gradi, dopo i quali si
doveva intendere sciolto ogni vincolo.
Grave era poi la disposizione mantenuta dall’art. 118 del codice feliciano
del 1827: che i figlioli e le figlie, ancorché maggiori di 25 e 20 anni
rispettivamente, i quali contraessero matrimonio disonorante e ignominioso alla
famiglia e parentela, si intendessero, per questo mero fatto, senz’altro
diseredati, salvo disposizione contraria degli ascendenti. I loro discendenti
decadevano da ogni ragione di succedere nei feudi di qualunque natura (primogeniture,
fidecommessi e maggiorati) e da ogni prerogativa della famiglia e se ne doveva
devolvere la successione ai prossimiori chiamati e loro successori, cui si intendevano
posposti, salvo ai contravventori e ai discendenti, il diritto agli alimenti
sussidiari sui frutti di detti feudi, primogeniture, fidecommessi e maggiorati
(art. 119).
I contravventori, poi, salvo riabilitazione, erano privati di ogni dignità,
carica e impiego di R. Servizio (art. 118).
Tali pene avevano luogo anche quando i matrimoni disonoranti ed ignominiosi
fossero contratti da persone sui juris (art.120).
Queste disposizioni rispecchiano chiaramente la mentalità e i concetti
del tempo e rivelano l’esistenza di una casta nobiliare gelosa e forte
dei suoi privilegi, ancora alla vigilia dell’abolizione dei medesimi (1847-1848).
L’antica tradizione iberica perdurava tenace nell’isola, per nulla
intaccata dalla trionfale marcia delle nuove idee, che altrove andavano così
violentemente reagendo ad un passato ormai volgente al tramonto. Nelle città
e nelle campagne la compagine sociale era sempre la stessa: una stretta minoranza
di privilegiati, tra cui dominavano le più antiche, potenti e ricche
famiglie feudali, sovrastava ad un numeroso proletariato di contadini e di artieri
privi di coscienza politica, che dopo le disorganizzate e pressoché incoscienti
ribellioni degli ultimi anni del secolo XIX (antipiemontesi nelle città
e antifeudali nelle campagne), era stato facilmente domato dalle taglie e dal
capestro per tornare alla rassegnata soggezione ai secolari padroni.
La classe media o borghese che, troppo disorganizzata e debole, si era anch’essa
invano agitata per avere posti ed impieghi, era tornata alla sue incerte posizioni
intermedie tra l’abbiezione del vassallo e del bracciante e la tracotanza
del ricco titolato. In seno ad essa gli elementi migliori si facevano faticosamente
strada con gli studi per raggiungere gli alti posti della magistratura, dell’insegnamento
universitario e dell’amministrazione e miravano all’ambita conquista
di un titolo nobiliare che, accrescendo ad essi ed alla famiglia lustro e decoro,
li elevasse alla pari della ristretta, potente ed emulata élite di privilegiati.
D’altro canto la corte, in quel periodo di reazione e di tormentosa lotta
fra il vecchio e il nuovo, incoraggiava apertamente queste forme di devozione
e di vassallaggio, appagando le ambizioni di quanti, prostrati ai piedi del
regio trono, esponevano le proprie benemerenze per conseguire le agognate concessioni
nobiliari. Dalla febbre dei titoli non era immune neppure l’elemento intellettuale
poiché, non solo i negozianti che avevano in momenti difficili prestato
somme al regio erario; non solo i ricchi agricoltori che avevano esteso la cultura
nei loro poderi o piantato un certo numero di ulivi (a termini del regio editto
3.12.1806); o quanti avevano costruito un tratto di strada o un ponte, oppure
avversati i francesi e gli angioini; ma anche i professori universitari, gli
alti impiegati ed i distinti magistrati, non paghi ben spesso della nobiltà
personale derivante dalla carica, enumerando i loro servizi e sottomettendosi
a pagare la prescritta finanza, sollecitavano le concessioni del cavalierato,
della nobiltà o di un titolo di barone o di conte, anche senza predicato,
che fosse trasmissibile ai loro discendenti. I diplomi di concessione consacrano
sempre nel loro prolisso tenore tale stato di cose, dando esplicitamente atto
delle richieste fatte e dei motivi che ne determinavano l’accoglimento.
Ma questi erano, si può dire, gli homines novi del momento.
All’integrità e decoro della casta nobiliare, il cui nerbo era
sempre costituito dalle più antiche famiglie, provvedevano le consuetudini.
Le norme sui matrimoni disonoranti e indecorosi erano per così dire,
l’ultima ratio contro i rampolli degeneri dei titolati e l’uso invalso
nelle famiglie feudali e nobiliari, gelose conservatrici dei loro titoli, che
i matrimoni stessi si effettuassero rigorosamente con persone di pari grado
e condizione sociale, aveva per se stesso forza di legge. Dal secolo XVI in
poi era venuta in desuetudine la vendita di feudi a persone a non nobili, praticata
su vasta scala nei tempi anteriori in momenti di grande difficoltà dell’erario
regio ed era scongiurato il pericolo, già lamentato in un capitolo di
corte del parlamento del 1421, che si vendessero feudi ad acquisitori non de
paratico ni de seguida de armas (cioè non nobili né cavalieri).
Infatti, ancora nel parlamento 1553-54 undici dei feudatari intervenuti, non
essendo decorati di titolo nobiliare, erano singolarmente e semplicemente qualificati
magnifich mossen e heretat. Nel seicento vengono pertanto meno tali
passaggi per compravendita da un privato all’altro sia pure con assenso
regio ed i feudi restano in mano di un circoscritto numero di famiglie feudali
(che troviamo ormai pressoché tutte nobili), pur passando facilmente
dall’una all’altra di esse per via di matrimoni e di successioni.
Le generalizzate forme del feudo improprio, come già si è
dimostrato altrove e dell’allodio, agevolavano tali passaggi dei feudi
da un casato all’altro per via di matrimonio delle primogenite o eredi
feudatarie, con feudatari o nobili di altra famiglia, dando spesso luogo al
fenomeno del raggruppamento dei titoli in uno stesso primogenito o erede (stato
di fatto protrattosi fino al XX secolo).
Contemporaneamente, nel secolo XVII ha luogo l’altro fenomeno di elevazione
di grado dei titoli nobiliari da baronie a contee e da contee a marchesati,
corrispondentemente alla riunione dei titoli in uno stesso casato, e al concentramento
di vasti possessi feudali. Pertanto da questo periodo in poi i feudi non escono
più come in passato dalla cerchia nobiliare e feudale per passare in
ricchi mercanti o in famiglie non nobili, come nei secoli precedenti.
Le suesposte concezioni palesano chiaramente nell’isola l’influsso
iberico così tenacemente invalso da secoli, che si rivela anche nelle
istanze per concessioni nobiliari. Così i richiedenti allegano spesso,
tra i motivi in loro favore per ottenere le concessioni, i parentadi con altre
famiglie nobili.
L’ordinamento nobiliare italiano approvato con R.D. 21.1.1929, disciplinando
nuovamente le successioni nei feudi impropri, ha derogato ai privilegi concessi
dalle antiche concessioni sovrane in materia, ispirandosi al principio che i
titoli nobiliari restino o rientrino nell’agnazione maschile degli ultimi
investiti del titolo. Si è così impedito il secolare passaggio
dei titoli feudali trasmissibili per linea femminile, da un casato all’altro,
cosa prima frequentissima per via dei matrimoni, per i quali in breve volgere
di anni, i titoli originariamente concessi ad una famiglia, passavano successivamente,
sia pure previe lettere patenti di regio assenso, in casati diversi dagli originari.
Quindi la successione dei titoli, predicati ed attributi nobiliari per il R.D.
16.8.1926 n.1489, ribadito nell’ordinamento nobiliare citato, ha luogo
(art.54) a favore della agnazione maschile dell’ultimo investito per ordine
di primogenitura, senza limitazione di gradi (cioè senza limiti nella
rimoziorità, mentre anche il rimoto agnatizio maschile prevale sul prossimo
femmineo, con preferenza di linea sul grado (cioè la linea retta vince
ad inferiorità e a parità di grado sulla collaterale). I chiamati
alla successione debbono discendere per maschi (non per femmine) dallo stipite
comune, primo investito del titolo. I titoli, i predicati e gli attributi nobiliari
non si trasmettono alle femmine né per linea femminile, salvo l’eccezione
dell’art. 57. Per quest’ultima eccezione, i titoli concessi, oltre
che a tutti i maschi anche alle femmine, spettano alle medesime durante lo stato
nubile e non danno luogo a successione, mentre (art.59) i titoli e predicati
nobiliari provenienti da femmine, che prima del 7 settembre 1926 (data d’inserzione
del decreto nella G.U.), sono legittimamente pervenuti alla loro discendenza
maschile, continuano (per un rispetto ai diritti quesiti) a devolversi alla
medesima discendenza secondo le norme dell’art. 54.
Però (ultimo capoverso dell’art.59), estinte le linee maschili
aventi per stipite comune la femmina intestataria del titolo, questo con gli
annessi predicati ritorna, previe lettere patenti di regio assenso (evidentemente
ad impedire il passaggio in un nuovo casato per via di matrimonio) all’agnazione
maschile della famiglia alla quale apparteneva nel giorno della promulgazione
delle leggi abolitive della feudalità (cioè, per la Sardegna,
la carta reale 21.5.1836 ed i regi editti 12 maggio e 21 agosto 1838, che autorizzavano
le transazioni feudali), osservate le norme del citato art. 54.
I titoli (chiosa lo stesso articolo 59) per le successioni verificatesi dopo
l’entrata in vigore del regolamento per la Consulta Araldica, approvato
con R.D. 5.7.1896 n.314, si intendono legittimamente pervenuti alla discendenza
maschile quando le lettere patenti di regio assenso prescritte dall’art.
31 del citato regolamento siano state emesse prima del 7.9.1926.
Se prima di tale data le lettere patenti siano state richieste nei modi di legge,
il rilascio delle medesime potrà tuttora aver luogo con effetto di legittimare
la devoluzione dei titoli a favore della suddetta discendenza maschile.
I titoli e predicati (art.60) che, fuori del caso previsto dal primo capoverso
dell’art. 57, al 7 settembre 1926 erano pervenuti in femmine nubili, passano
dal giorno del loro matrimonio e, se non prendono marito, alla loro morte, all’agnazione
maschile della famiglia alla quale la donna appartiene, osservate le norme dell’art.
54 e salvo quanto dispone l’art. 63 (vedi appresso).
Se i titoli e i predicati sono pervenuti a donne già maritate al 7.9.1926,
il passaggio all’agnazione maschile delle famiglie donde esse provengono
avviene nel giorno della loro morte, restando senza effetto le lettere patenti
di regio assenso già date a loro favore per quanto riguarda la trasmissibilità
dei titoli ai loro discendenti.
Per l’art. 63, infine, se siano estinte o dopo il 7.9.1926 si estinguono
le agnazioni maschili (cioè in mancanza totale di agnati di qualunque
grado delle famiglie che, a norma della prima o dell’ultima parte dell’art.59
(citate) avevano diritto alla successione nel titolo, questo può essere
rinnovato con atto sovrano a favore di una figlia dell’ultimo investito
e della di lei discendenza maschile, sotto condizione che la famiglia di quest’ultima
si trovi inscritta nell’elenco ufficiale della nobiltà italiana.
Sarà preferita la figlia più anziana di età che, all’atto
della vacanza del titolo, abbia già prole maschile, appartenente a famiglia
inscritta nell’elenco.
Nella stessa ipotesi di estinzione delle suddette agnazioni (mancando cioè
ogni ragione di far valere i diritti di queste), la rinnovazione mediante atto
sovrano potrà aver luogo a favore della discendenza maschile dell’ultima
donna intestataria del titolo (evidentemente per impedire l’altrimenti
facile passaggio del titolo in altri casati), sotto la condizione però
che la famiglia di tale discendenza maschile si trovi già inscritta nell’elenco
ufficiale della nobiltà italiana (evidentemente come nel caso precedente,
in ossequio alle disposizioni prescriventi l’obbligatorietà dell’iscrizione
in detto elenco).
Dal testo della legge balza evidente lo scopo di impedire i frequenti passaggi di titoli da un casato all’altro per via della discendenza delle femmine titolari di essi, ed il principio di mantenere i titoli stessi nelle agnazioni maschili, cui trovansi ormai già acquisiti.
Del segnacaso “de” e “dei”:
Il prefisso de si incontra frequente nei documenti sardi più
antichi per indicare la provenienza originaria della persona dal paese o località
al cui nome esso si prepone e spesso, avendo in origine indicato tale provenienza
di luogo, è già diventato un gentilizio unitamente al nome cui
è preposto. Tale fenomeno si verifica non solo nel caso delle famiglie
nobili magnatizie e potenti della Corte dei Giudici sardi i cui membri (distinti
coi titoli di donnigellu e donnu), costituivano l’antica
nobiltà isolana soffocata più tardi dalla conquista aragonese
(i de Unali, i de Kerki, i de Thori (o de Zoli), i de Athen (o de Atzeni), i
de Laccon, i de Serra, i de Arcedi), ma anche nei casati più umili dei
contadini e degli schiavi.
Spesso accade che il nome di provenienza, originariamente indicante un paese
o un luogo, sia diventato ormai un gentilizio cui segue un altro nome preceduto
dal segnacaso dei, indicante la provenienza recente del luogo o del paese.
Più tardi il prefisso de si incorpora addirittura col nome del paese
o del luogo, formando con esso un tutt’uno (così oggi Deiana, Dettori,
Desogus, Dessanai, Dessì, Dolia, Demontis, Deplano, Delogu, Devilla,
Deidda). In genere tali nomi, diventati dei gentilizi fondendosi col prefisso
de, appartengono a ville e luoghi da tempo distrutti (Iana, Arcedi, Azzeri,
Sanai, Olia, etc.). Né è raro il caso che nomi delle stesse ville
distrutte, costituiscano cognomi non preceduti dal prefisso de (Achenza, Sollai,
Loddu, Cancedda, Castangia, Cherchi).
In altri casi non è chiaro il senso del casato preceduto dal de,
poiché sembra indicare, più che una località di provenienza,
un gentilizio derivante da un attributo o soprannome o il nome di un ascendente.
Coerentemente alle massime generali adottate dalla Consulta Araldica è
dunque evidente che la particella de preposta ad un cognome, non è
da sola né può essere considerata, neppure nell’isola, indizio
di nobiltà.
Ma la particella dei, secondo le norme già da tempo seguite
dalla stessa Consulta e ribadite nell’Ordinamento Nobiliare Italiano (art.
572 c.), può essere preposta di diritto dagli ultrogeniti delle famiglie
insignite di titoli primogeniali, al titolo e predicato del primogenito e, se
trattasi di più titoli o predicati primogeniali, a quello che fa parte
del nome d’uso di famiglia (salvo diversa tradizione familiare). Quando
(art. 58) uno o più titoli o predicati nobiliari siano passati per successione
femminile in altra famiglia, il diritto di cui al 2° capoverso dell’art.
precedente, spetta ai membri della famiglia che ha perduto i titoli, nati prima
del passaggio, ed a quelli della famiglia cui sono pervenuti, nati dopo il passaggio.
Il possesso di un titolo feudale (barone, conte, etc.) secondo le decisioni
dell’antica giurisprudenza nobiliare sarda anteriori al 1848, non implicava
alcun diritto alla nobiltà, che doveva sempre essere conferito con speciale
diploma.
Gli ultrogeniti delle famiglie insignite di titoli primogeniali sono nobili
di diritto, per una norma già da tempo seguita dalla Consulta Araldica,
e ribadita dall’art 57 u.c., dello Stato nobiliare italiano.
Per le norme suesposte, gli ultrogeniti dei semplici cavalieri ereditari possono
far precedere al proprio casato la dizione “dei cavalieri”.
Secondo la disposizione introdotta nel citato Ordinamento dello Stato Nobiliare
Italiano (art. 5), il titolo di nobile è comune agli insigniti di ogni
altro titolo (cioè del titolo di principe, duca, marchese, conte, visconte,
barone, signore, patrizio, cavaliere ereditario). Quindi è legittima
l’interpretazione che il legislatore intenda con essa conferire il titolo
di nobile a quanti hanno diritto ad uno di tali titoli.
Si dà anche il caso che l’ultrogenito di famiglia titolata abbia
ottenuto personalmente dal re il titolo spettante ereditariamente ai primogeniti.
Nonostante tali rigorose disposizioni, accade di frequente in pratica che agli
ultrogeniti delle famiglie feudali si dia senz’altro il titolo di conte,
barone, marchese, etc. spettante al solo primogenito, anziché quello
di dei conti, dei baroni, dei marchesi, etc.
Elenchi stamentari e loro utilità:
Le diverse liste dei membri degli stamenti depositate nel R. Archivio di Cagliari
sono utilissime non solo dal lato storico (in quanto fanno conoscere la composizione
dei singoli bracci nei diversi tempi), ma anche dal lato araldico poiché
possono fornire utili elementi alla genealogia delle famiglie nobili e feudali
ed eventualmente preziosi equipollenti di prova, in mancanza dei diplomi originali
di concessione rilasciati ai capostipiti delle famiglie stesse. Non sempre infatti
coi libri parrocchiali si possono ricostruire completamente le genealogie, per
interruzioni o dispersioni di registri, tanto più frequenti quanto più
si va indietro nel tempo. Come si è già notato altrove, l’elenco
dei nobili e dei cavalieri, compilato nel 1822 dalle varie prefetture dell’isola
(con lo scopo fiscale di ripartire i contributi per la missione eseguita allo
scopo di rendere omaggio a Carlo Felice nella ricorrenza della sua incoronazione),
ha fornito preziosi dati per l’iscrizione nell’Elenco Ufficiale
Nobiliare Italiano di molte famiglie nobili sprovviste del titolo originale
di concessione. Naturalmente i dati offerti dai registri possono rintracciarsi
anche in altri documenti d’archivio (sentenze civili e penali, atti d’investitura,
abilitazioni ai parlamenti, atti notarili, procure…)
Procedendo in ordine di tempo e tenendo conto solo degli elenchi più
completi, sono da ricordare: una lista dei feudatari al 1485; altra dei cavalieri,
nobili e feudatari al 1497; altra di feudatari al 1500; altre dallo stamento
militare del 1528, del 1553-54, del 1558, del 1573, del 1627, del 1642, del
1645, della 1^ metà del secolo XVII.
Esse si moltiplicano alla 2^ metà del secolo XVII e sono corredate anche
da documenti. Per il periodo austriaco: la lista dei nobili cui fu pagato censo
dal 1709 al 1714. Per il periodo sabaudo i numerosi elenchi contenuti nel vol.
54 serie 2° della R. Segreteria di Stato dal 1706 al 1792 e nel volume successivo,
nonché l’elenco dei componenti gli stamenti dal 1743 al 1841 (militare,
ecclesiastico e reale per i due capi) contenuto nel vol. 4° dell’Archivio
dell’amministrazione delle torri del regno.