Il riscatto dei feudi
di Lorenzo Del Piano
Durante il suo viaggio in Sardegna nel 1829, Carlo Alberto,
dietro suggerimento dell'amico Villamarina, aveva pensato all'abolizione del
feudalesimo, considerato causa di molti se non proprio di tutti i mali dell'isola.
Un'idea analoga era già stata presa in considerazione nel 1744, quando
si era osservato che grosse somme venivano inviate ogni anno ai feudatari spagnoli
dagli amministratori dei loro feudi isolani , e si era pensato di far cessare
questo pesante salasso riscattando i feudi, che erano poi i più vasti
ed i più ricchi, dei quali erano titolari signori spagnoli.
Il proposito era stato accantonato per contrasti insorti tra Torino e Madrid,
ma nei decenni successivi il problema sarebbe riaffiorato, o come iniziativa
di diverse comunità, disposte a riscattarsi pagando in una sola volta
il capitale corrispondente alle prestazioni in natura o in denaro alle quali
erano tenute, o nei propositi più radicali dei vassalli particolarmente
della Sardegna settentrionale, che avevano sia pure per un breve periodo trovato
l'appoggio della borghesia intellettuale e di parte della piccola nobiltà
non feudale.
Il PROGETTO VILLAMARINA:
Dopo la repressione dei moti angioiani, qualcosa si era
fatto per una migliore amministrazione della giustizia baronale, affidata spesso
a persone impreparate e abituate a spremere il più possibile ai disgraziati
vassalli che capitavano loro fra le mani, né erano mancate le iniziative
intese a sopprimere i tributi illegittimi ed a limitare i comandamenti dominicali,
e cioè le prestazioni di lavoro in favore dei feudatari, ma la situazione
dei vassalli era rimasta pressoché immutata, sicché era giustificata
la convinzione del Villamarina che non fosse più il caso di ricorrere
a palliativi: ciò che era necessario era arrivare all'abolizione del
feudalesimo, sottraendo intanto ai baroni, senza compenso, l'amministrazione
della giustizia, che sarebbe stata trasferita allo Stato. Nessun indennizzo
avrebbe dovuto essere concesso per le prestazioni chieste abusivamente ai vassalli,
e nel determinare il prezzo del riscatto, da pagare in contanti solo ai feudatari
stranieri, si sarebbe tenuto conto della somma eventualmente versata a suo tempo
per acquistare il feudo, degli interessi, del valore dei terreni e degli stabili
dei quali era stata ottenuta la disponibilità con la concessione feudale.
I feudatari avrebbero conservato il titolo, ma siccome, scriveva il Villamarina,
anche questo aveva a suo tempo fatto "peso nella bilancia del prezzo d'acquisto",
non sarebbe stato iniquo "valutarne il prezzo in tanto di meno nella redenzione":
atteggiamento che non deve stupire in un uomo che se era legato agli ambienti
aristocratici, era anche convinto della necessità di creare ad ogni costo
le condizioni per il progresso economico dell'isola.
Carlo Alberto era dello stesso parere, ed è sorprendente come malgrado
le difficoltà di vario genere incontrate, e malgrado il suo carattere
indeciso, riuscisse a compiere quello che il Siotto Pintor considera "una
specie di miracolo politico", dal momento che dopo quattro secoli "la
feudalità fu strozzata senzaché siavi stata una legge che l'abbia
abolita".
L'OPPOSIZIONE DELL'AUSTRIA:
Un primo tentativo di giungere all'abolizione del
feudalesimo fu fatto subito dopo l'ascesa al trono di Carlo Alberto, quando,
nel 1832, il Consiglio di conferenza prese in esame, su proposta del ministro
Barbaroux, uno schema di R.R. Patenti con le quali veniva disposto l'affrancamento
dei feudi mediante la corresponsione ai feudatari di una rendita, il cui importo
sarebbe stato stabilito in contraddittorio fra gli stessi feudatari e i Comuni.
L'iniziativa non andò avanti, perché il ministro degli Esteri
marchese Victor Sallier de la Tour, sostituito nel 1835 da Clemente Solaro della
Margarita, suggerì al re di aggiornare la discussione, in quanto un tentativo
di abolire i feudi, in base ai patti di cessione dell'isola ai Savoia, avrebbe
potuto portare a complicazioni internazionali con la Spagna e con l'Austria,
ed in effetti il re ricevette a Valdieri una nota minacciosa dell'Austria nella
quale, facendo riferimento al Trattato di Utrecht, si contestava il suo diritto
di sovvertire uno degli elementi basilari della costituzione politica isolana.
Diventato ministro per gli affari di Sardegna, il Villamarina, d'accordo col
Montiglio e col Musio, inviò nell'isola il conte Sauli affinché
studiasse un progetto di assoluto riscatto, mentre il re era propenso ad adottare
il sistema dei feudi chiusi, ciò che avrebbe significato perpetuare il
feudalesimo. Mutata la situazione internazionale con l'ascesa al trono di Spagna
della regina Isabella II, che Carlo Alberto considerava sovrana illegittima;
maturata la convinzione che il re di Sardegna aveva il diritto di revocare le
concessioni feudali fatte dai re d'Aragona esattamente come lo avrebbero avuto
questi se l'isola fosse rimasta in loro possesso; manifestatasi nel febbraio
del 1834 una certa irrequietezza dei vassalli, che nel Mandrolisai e in altre
zone rifiutavano il pagamento dei consueti tributi, si ritenne di dover affrontare
il problema. Pertanto a partire dal luglio 1834, con una serie di provvedimenti
sui quali veniva chiamato ad esprimere il suo parere il Consiglio supremo, veniva
istituita una R. Delegazione incaricata di accertare i redditi dei singoli feudi,
sentiti i Comuni interessati, e veniva abolita senza compenso la giurisdizione
feudale. Quest'ultimo provvedimento fu festeggiato in diverse località
dell'isola, tra le quali Nulvi, Osilo, Nuoro, Oristano, Ploaghe ed Ittiri, dalle
popolazioni, che ritenevano fossero state abolite anche le prestazioni feudali:
solo a Bonorva e in pochi altri centri si ebbero manifestazioni ostili, sobillate
dagli agenti baronali. Ricordiamo a questo proposito, con Bruno Anatra, che
appunto nel 1835 in Austria e nel 1837 in Spagna veniva ripresa, sia pure con
modalità particolari, una politica tutto sommato di eversione legalitaria
della feudalità, ancora pressoché intatta in altri paesi, o restaurata
dopo la Rivoluzione Francese.
Una circolare del 26 giugno 1836 dissipava l'equivoco, chiarendo che si dovevano
ancora pagare i tributi feudali, e che quando si fosse decisa l'abolizione del
feudalesimo ai feudatari sarebbe stato assegnato un equo compenso. Le manifestazioni
di esultanza alla quali accennano il Mondolfo ed altri autori erano comunque
un concreto incoraggiamento ad andare avanti, anche se sussistevano gravi perplessità
sulla via da seguire. Alla abolizione del feudo si poteva infatti giungere in
diversi modi, ed innanzitutto con l'allodiazione, e cioè con l'assegnazione
ai feudatari, in piena proprietà, di una parte del feudo, e con l'avocazione
allo Stato della parte restante: soluzione ritenuta dal Consiglio supremo non
applicabile nell'isola, dato lo scarso sviluppo raggiunto dall'agricoltura.
Altra possibilità, anche questa esclusa dal Consiglio supremo, consisteva
nell'affrancamento: i Comuni avrebbero dovuto pagare in questo caso ai feudatari
il capitale corrispondente ai soli tributi legittimi, ripartendone l'onere tra
i vassalli, che però erano in genere molto poveri. I feudatari avrebbero
conservato la proprietà dei beni che già possedevano, mentre le
terre del demanio feudale sarebbero state ripartite fra il Comune interessato
e lo Stato.
Escluse le due prime soluzioni, al Consiglio supremo sembrava praticabile solo
la terza, e cioè il riscatto dei feudi da parte dello Stato, che avrebbe
quindi ripartito fra i Comuni da un lato le somme corrisposte ai feudatari,
dall'altro i terreni già costituenti il demanio feudale. Questa soluzione
tuttavia non risultava chiaramente decisa nemmeno nel R. Editto del 30 giugno
1837, col quale veniva istituita una nuova Delegazione, incaricata di stabilire,
in contraddittorio con i feudatari e sentiti i Comuni, l'ammontare dei soli
diritti feudali legittimi e di riferire a Torino il risultato dei suoi lavori.
Anche questa volta il provvedimento fu frainteso dai vassalli, che opposero
resistenza al pagamento sia dei diritti legittimi, sia di quelli illegittimi
che i feudatari continuavano ad esigere.
IL RISCATTO DEL FEUDO D'ARCAIS:
Mentre l'Austria persisteva nella sua opposizione, anche
sobillando i feudatari perché creassero difficoltà all'attuazione
dell'ormai evidente proposito di Carlo Alberto di giungere in un modo o nell'altro
all'abolizione del feudalesimo, il Montiglio ed il Musio suggerirono al Villamarina
di superare gli ostacoli formali stipulando contratti di riscatti coi singoli
feudatari. Anzi, gli stessi Montiglio e Musio, trovandosi a Torino nel luglio
del 1837, si incontrarono con Efisio d'Arcais, marchese di Valverde, e lo persuasero
ad interessarsi presso il padre, il marchese Flores Nurra, titolare del feudo
d'Arcais, affinché acconsentisse al riscatto dello stesso feudo, costituito
da 37 villaggi del Campidano di Oristano: proposta che aveva tanto maggio probabilità
di essere accolta in quanto se le prestazioni richieste ai vassalli erano molto
gravose per questi, e molto redditizie per il feudatario, l'esazione risultava
difficile per la resistenza opposta dai vassalli, che già nel 1808 avevano
chiesto di potersi riscattare pagando il capitale corrispondente ai vari tributi.
La situazione risultava particolarmente chiara, in questo caso, in quanto il
feudo era stato acquistato da non molto tempo, per la somma di 55.000 scudi.
Glia altri feudatari esercitarono pressioni sul d'Arcais perché non cedesse
il feudo, ma poiché gli venivano fatte condizioni eccezionalmente favorevoli,
il marchese acconsentì al riscatto, stipulando con le RR. Finanze un
contratto approvato con R. Patente del 5 maggio 1838. In cambio della rinuncia
spontanea al feudo il marchese d'Arcais, che aveva dichiarato una rendita annua
di 30 mila lire, ridotta a 14.500 dalla Delegazione di Cagliari, ricevette una
rendita annua di 20.000 lire. Ottenne per di più in piena proprietà
il salto Ungroni, due peschiere e una tonnara a Flumentorgiu. Compenso eccessivo
secondo l'Esperson, equo secondo il Musio, che ricorda che la somma offerta
dai vassalli per riscattarsi era molto superiore a quella corrisposta dalle
RR. Finanze.
LA CARTA REALE DEL 12 MAGGIO 1838:
Constatato che il sistema proposto dal Montiglio e dal
Musio funzionava, una Carta reale del 12 maggio 1838 annunciava, questa volta
esplicitamente, il proposito di Carlo Alberto di "esonerare quegli amati
nostri sudditi dalle tante e varie prestazioni feudali…surrogando a quelle
un equo compenso pecuniario, regolato sovra basi più giuste e uniformi".
Esponeva inoltre per grandi linee le modalità del riscatto, e prometteva
la distribuzione ai Comuni delle terre ex feudali, libere da ogni vincolo. Le
somme anticipate dalle RR. Finanze ai feudatari sarebbero state accollate ai
Comuni, che le avrebbero ripartite fra tutti gli abitanti in grado di concorrere
alle "pubbliche gravezze", anche se in precedenza esenti dai tributi
feudali, fatta solo qualche limitata eccezione in favore della Chiesa. Un editto
del 21 dicembre precisava quindi che i Comuni potevano liberarsi da ogni onere
pagando in una sola volta venti annualità del contributo a loro carico.
Il nuovo sistema sarebbe entrato in vigore nel 1839 nel feudo d'Arcais e nei
feudi della Corona. Negli altri sarebbe entrato in vigore via via che venivano
riscattati.
Già nel 1838 era stato riscattato il feudo di S.Giovanni Nepomuceno e
nel 1839 diversi altri fra i quali quelli della famiglia Aymerich. Malgrado
la resistenza dei feudatari di Mandas, Orani e Posada che, animati dall'evidente
proposito di ritardare al definizione delle loro pratiche, non volevano "né
offrire il riscatto a patti ragionevoli, né indicare se volessero esigere
in denaro le rendite feudali liquidate", le cose procedettero abbastanza
rapidamente, sicché nel marzo del 1842 risultavano non ancora riscattati
solo le baronie di Posada e di Senes ed il marchesato di Orani e Gallura.
Imponente fu il lavoro svolto dalla R. Delegazione di Cagliari, che dovette
cercare di veder chiaro tra la confusione, l'incertezza e l'inesattezza dei
dati forniti dai feudatari. Lasciando comunque insoluti i casi più complessi,
dopo il 1838 la Delegazione pronunciò in poco più di due anni
300 sentenze, traducendo in contanti il valore delle prestazioni in natura,
e mostrandosi nel complesso, come scrive il Siotto Pintor, "parca e poco
meno che spilorcia" nei confronti dei feudatari, ciò che tornava
a tutto vantaggio dei Comuni.
LA QUESTIONE DEI COMPENSI:
Il lavoro della R. Delegazione di Cagliari fu in parte
vanificato dal Consiglio supremo di Torino e dal re, che largheggiarono alquanto
nello stabilire in via definitiva la rendita assegnata ad alcuni feudatari.
Le ragioni di questo comportamento vanno ricercate: nella personale generosità
di Carlo Alberto, ma in questo caso le somme pagate in più rispetto agli
accertamenti effettuati avrebbero dovuto gravare sulle RR. Finanze, non, come
avvenne, sui Comuni; nei legami di alcuni membri del Consiglio supremo con gli
ambienti feudali; nel fatto che, mentre i feudatari disponevano di rappresentanti
qualificati che seguivano dappresso le loro cause, i Comuni, per risparmiare,
si rimettevano in genere alle conclusioni dell'avvocato fiscale generale.
C'era poi, almeno inizialmente, un altro motivo per largheggiare nella determinazione
delle rendite, e cioè la necessità di arrivare il più presto
possibile al riscatto del maggior numero di feudi, prima che l'opposizione potesse
organizzarsi e trovare eventualmente appoggi sul piano internazionale. L'Esperson,
che appare tutt'altro che tenero verso l'antico regime, accenna anche ad episodi
che sarebbe stato bene non fossero accaduti, ma che non devono sorprendere,
considerati l'entità degli interessi in gioco ed il numero delle persone
coinvolte in un'operazione di così vasta portata. Ricorda tra l'altro
l'Esperson che il feudo di Montesanto era stato dato in appalto, poco prima
del riscatto, a certo Solinas, che alla scadenza del contratto non aveva voluto
rilevarlo nemmeno per una somma minore. Nel contraddittorio per la determinazione
del prezzo del riscatto, il Solinas, che rappresentava i Comuni interessati,
e che conosceva molto bene la situazione, ottenne che la rendita venisse fissata
dalla R. Delegazione in 4.000 lire, ma il suo impegno si rivelò inutile,
perché il Consiglio supremo la elevò a 10.000 lire, dopo di che
il feudatario non nascose agli amici la sua soddisfazione per avere speso bene
gli 800 scudi coi quali sosteneva di avere corrotto un membro dello stesso Consiglio.
Del tutto secondario, almeno per lui, il fatto che proprio a causa dell'eccessivo
prezzo pagato per il riscatto, sugli abitanti dei due Comuni del feudo, Siligo
e Banari, vennero a gravare tanto alti, che molte famiglie si videro obbligate
ad emigrare. Il Solinas sarebbe poi stato costretto, in punizione dell'eccessivo
zelo dimostrato, a risiedere per tre mesi a Cagliari. Sintomatico un altro episodio,
pure riferito dall'Esperson, secondo il quale il sostituto avvocato fiscale
De Andreis sarebbe stato invitato dai suoi superiori a non impegnarsi troppo
nella difesa degli interessi dei Comuni. Altre ingiustizie furono commesse con
la concessione al marchese di Villacidro di una somma doppia rispetto a quella
sperata dal suo avvocato solo perché il marchese, come Grande di Spagna,
rappresentava don Carlos alla corte sabauda: la rendita corrispostagli per il
suo feudo, che contava solo dieci villaggi piuttosto poveri, fu eguale a quella
riconosciuta al marchese di Quirra, il cui feudo comprendeva ben 77 villaggi.
Informata del fatto, ricorda il Siotto Pintor, la R. Delegazione di Cagliari
chiese ed "ottenne che una parte di quella somma venisse accollata al regio
erario".
Secondo i dati riportati dal Mondolfo, al quale rinviamo, il Consiglio supremo
assegnò una rendita superiore al reddito netto accertato per il riscatto
del ducato di Mandas, dei marchesati di Villasor, Laconi, Soleminis, S. Sperate,
Villaclara, S. Saverio e Quirra, per le contee di Villamar, Monteleone e S.
Lorenzo, per il viscontado di Sanluri, per le baronie di Ploaghe, Romangia,
Montiferro, Furtei, Ussana, Las Plassas e Capoterra e per la curadorìa
di Austis. Venne invece pagata una somma inferiore al reddito netto accertato
al marchese di Samassi e Serrenti ed ai baroni di Teulada e di Bombei.
LA POSIZIONE DEI COMUNI:
L'orientamento che in un primo tempo era sembrato prevalere
era che il compenso dovuto ai feudatari sarebbe stato pagato in contanti, e
solo eccezionalmente in titoli di rendita. Di fatto, fu quest'ultima la soluzione
che prevalse, sicché in bilancio vennero inizialmente stanziate 300.000
lire, delle quali 250.000 per il pagamento delle rendite e 50.000 per l'estinzione
del debito dello Stato, mediante sorteggio. Alcuni feudatari chiesero tuttavia
di poter continuare a godere della rendita invece di riscuotere l'intero capitale.
La somma stanziata si rivelò insufficiente, e venne in seguito aumentata,
grazie anche ad un prestito di quattro milioni ottenuto dal Villamarina presso
alcune banche genovesi, che lo tenevano in molta considerazione sia perché
possedeva, anche a seguito della morte del fratello, un patrimonio considerevole,
sia per la sua abilità di uomo d'affari, dato che, come scrive il Siotto
Pintor, "spediva egli navi cariche per suo conto all'America".
Le somme pagate ai feudatari vennero nella quasi totalità addebitate
ai Comuni, a partire dal maggio 1840. Il contributo a carico di ciascun Comune
comprendeva una quota irredimibile, relativa alle spese per la giustizia, fatta
pagare anche ai Comuni che durante il periodo feudale non pagavano a questo
titolo nessun tributo, ed una quota redimibile, dal pagamento della quale i
Comuni potevano affrancarsi pagando in soluzione unica venti annualità.
Solo in qualche caso, sottolinea il Mondolfo, lo Stato si accollò la
parte del contributo che superava le possibilità contributive degli abitanti
di alcuni Comuni, mentre sarebbe stato equo che si fosse accollato l'intera
differenza fra le rendite accertate dalla R. Delegazione e quelle effettivamente
corrisposte ai feudatari. In molti casi nei quali questo intervento mancò,
la situazione delle popolazioni risultò più grave che in periodo
feudale, mentre solo teorico risultava, nel breve periodo, il vantaggio costituito
dal fatto che l'importo del contributo era fisso, e che pertanto in caso di
aumento della popolazione la quota gravante su ciascun abitante sarebbe diminuita.
Di limitata utilità risultarono inoltre i suggerimenti del governo viceregio,
che ai comuni che protestavano per l'eccessivo carico tributario consigliava
di istituire dazi, di indire roadìe, e cioè di far coltivare qualche
campo con prestazioni di lavoro non retribuite in modo da incamerare l'intero
prodotto, o di affittare ai contadini ed ai pastori le terre assegnate a ciascun
Comune in base ai regolamenti del 26 febbraio 1839 e del 24 agosto 1841. Diversi
autori sono concordi nel rilevare che la situazione degli ex vassalli non migliorò
con l'abolizione del feudalesimo, né sarebbe migliorata quando i tributi
surrogati alle prestazioni feudali sarebbero stati sostituiti dall'imposta fondiaria:
come che sia, non deve essere perso di vista il significato progressivo della
scomparsa del feudalesimo, e se non bastò questo provvedimento a far
rinascere la Sardegna, così come non era bastata la legge sulle chiudende,
il motivo deve essere ricercato nella complessità della questione sarda,
e nella inadeguata conoscenza che ancora per molto tempo si sarebbe avuta dei
suoi veri termini.
** Tratto dal libro "La Sardegna nell'Ottocento"
Ed. Chiarella